sabato 25 dicembre 2010

Propagandhisti di buon cuore (nero)

Ci pisciano in testa e poi ci dicono che piove
(M. Travaglio)


I recenti scontri tra studenti e forze dell’ordine, espressione del profondo disagio di intere generazioni, hanno fatto spuntare tutt'a un tratto una specie finora sconosciuta: quella dei propagandhisti.
Avete capito bene. Non è un’errore di scrittura, ma il nuovo prodotto rigorosamente “made in Italy” partorito dalla nostra classe dirigente. Si divide in tre gruppi e comprende tutti quei personaggi che sfruttano a fini propagandistici le categorie del pensiero non violento di derivazione Gandhiana.

Il primo gruppo è composto da quelli che ci credono (alias “quelli che ci sono”): sono i seguaci dell’evangelico “porgi l’altra guancia”, insegnamento che prendono a modello più quando le danno che quando le prendono. Anche perché loro non le prendono mai.
I propagandhisti del primo tipo, infatti, compongono lo sterminato universo dei “moderati”, ovvero tutti quelli che, per indole o più prosaicamente per culo, non si sono mai trovati in situazioni che ingenerassero in loro il genuino e legittimo desiderio di protesta. Sono quelli che “tutto va bene” perché a loro va tutto bene. Sono quelli che ti dicono cos’è giusto e cos’è sbagliato fare perché sono illuminati dal verbo del Signore (a proposito: auguri a Lui e a questo blog, che compie un anno!!). Sono quelli che “la violenza è sempre sbagliata”, non tanto perché la violenza sia effettivamente sempre sbagliata, ma perché è più facile e bello da dire e non comporta il faticoso esercizio del pensiero critico. Sono quelli per cui la bandiera della pace diventa il più qualunquista dei simboli, che rende sordi alle rimostranze dei popoli e ciechi di fronte alle differenti (e magari legittime) ragioni della violenza. Sono quelli che se non avrai la pensione, un posto sicuro e una casa, non devi gridare, sennò poi si sveglia Napolitano.

Il secondo gruppo è composto da quelli che fanno finta di crederci (alias “quelli che ci fanno”): a loro non frega nulla né dei motivi né dell’accettabilità morale della violenza (anche perché, per loro, la moralità è più spesso un ostacolo che un valore). I propagandhisti del secondo gruppo, dunque, non si chiedono né perché ci sia la violenza né se essa sia giusta o sbagliata: fanno semplicemente i loro interessi. Spesso sono più violenti dei violenti, ma la loro violenza assume forme e modalità che non urtano la sensibilità dei propagandhisti del primo gruppo.
Questa specie ha nel Parlamento il suo habitat naturale. Qui, per uccidere il futuro o la libertà di un’intera nazione basta premere un pulsante. Violenti sì, dunque. Ma con stile.

Il terzo gruppo, infine, è il più sensazionale. E’ composto da tutti quelli che, non avendo una faccia, non temono di perderla (alias “quelli che c’hanno fatto”). Sono quelli che hanno razzolato male e che ora predicano bene. Sono gli smemorati, quelli che, a sentirli parlare, sprangate e arresti diventano “peccati di gioventù” e che “durante il fascismo tutti vivevano felici e contenti”. Sono quelli che ieri stavano dalla parte delle barricate e oggi stanno dalla parte delle forze dell’ordine e dello stato, che credono di rappresentare.
Qui di seguito trovate una breve descrizione di tre rappresentanti nonché esemplari purissimi di questa categoria.

Maurizio Gasparri: prima militante e poi deputato del Movimento Sociale Italiano, è uno dei figli politici di Giorgio Almirante, il gerarca fascista firmatario delle leggi razziali e del manifesto che condannava alla fucilazione tutti i partigiani del grossetano che non avessero deposto le armi e non si fossero prontamente arresi.
Gasparri, che oggi recita più la parte del pazzo visionario che non quella di capogruppo dei senatori Pdl (del resto i lineamenti e lo sguardo non proprio sveglissimo lo rendono perfetto per il ruolo), ripete da giorni e in modo compulsivo proposte sconsiderate, come l’arresto preventivo dei manifestanti. Dimenticando il suo passato (?) neofascista, quando, da deputato dell’MSI, si mischiava ai saluti romani e ai “boia chi molla” di un corteo del Fronte della Gioventù che assediava la Camera e minacciava alcuni deputati.

Smemorato è anche Ignazio Benito Maria La Russa, figlio di un senatore missino e fratello di Romano, oggi assessore regionale lombardo all’industria. L’attuale ministro della difesa, protagonista di una scenata isterica antiviolenza ad annozero, dimentica alcuni fatti.
Come quando, nel 1973, durante una manifestazione non autorizzata del Fronte della Gioventù, di cui egli era uno dei principali leader, e di altri gruppi neofascisti, una bomba a mano (!!) uccise il poliziotto Antonio Marino e ne ferì altri 12.
O come quando, sempre nelle manifestazioni degli anni ’70, Ignazio Benito era solito farsi accompagnare da un pastore tedesco. Il cane, come da lui stesso confermato, abbaiava non appena sentiva la parola “compagno”. Un seguace del Mahatma.

Ma il primato della poca memoria va a Gianni Alemanno, il sindaco di Roma che “il centro storico nun se tocca”. Gianni, oltre ad essere il suocero di Pino Rauti, storico leader dell’estrema destra considerato tra i “responsabili morali” della strage neofascista di Piazza della Loggia, ha un passato non proprio da ragazzo casa e chiesa. Anche se non verrà mai condannato per i reati contestati, negli anni ’80 viene arrestato per ben tre volte: nell‘81 per l’aggressione ad un giovane di sinistra, nell’82 per aver lanciato una molotov contro l’ambasciata dell’URSS e nell’89 per resistenza aggravata a pubblico ufficiale.

Partoriti dalle bocche dei propagandhisti, dunque, i più o meno condivisibili moniti contro la violenza diventano fumo negli occhi, semplici e subdoli espedienti finalizzati ad ignorare (propagandhisti del primo tipo), isolare (propagandhisti del secondo tipo) o reprimere (propagandhisti del terzo tipo) il dissenso.
Il messaggio è chiaro: se la vostra casa sta bruciando, l’acqua dovete usarla per pulirvi le mani. Morite, ma con stile.

Del resto, siamo italiani, noi.

mercoledì 15 dicembre 2010

Fiducia. Nell’agopuntura

Il problema è che il 90% dei politici rovina il buon nome dell’altro 10%
(H. Kissinger)


L’agopuntura. Altro che il debito pubblico galoppante (a proposito, nuovo record: 1.867,398 miliardi di euro), gli operai in cassa integrazione, le discariche a cielo aperto a Napoli, il conflitto di interessi e la ‘Ndrangheta (che, sia ben chiaro, a Milano non esiste). Il vero problema dell’Italia è l’agopuntura.
Non parlate di mazzette e ricompense. Domenico Scilipoti, classe 1957, deputato eletto con l’Italia dei Valori, ha dato la fiducia al governo Berlusconi (alla seconda chiamata, “alla prima ero in bagno”) convinto del fatto che la neocofermata maggioranza si impegnerà a difendere le pratiche e il buon nome di questa terapia di ultimo grido in Italia, in Europa e nel mondo.
Anzi no. L’ha data perché una troupe di Annozero ha importunato sua madre.
Anzi no, l’ha data perché lui è contro l’usura ed il racket del mondo bancario, dal quale la sua nuova fiamma, tale Silvio Berlusconi, è notoriamente estranea.
Il paladino dell’antica terapia cinese ha in questo modo liberato definitivamente il campo da tutte le voci maligne che vedevano la sua improvvisa illuminazione pro-governo dopo 12 anni di feroce antiberlusconismo e 32 voti di sfiducia a Berlusconi (l’ultimo dei quali nel lontanissimo settembre 2010), come viatico per uscire da alcuni piccoli guai economico-giudiziari nei quali si era appena cacciato. Sette immobili pignorate e 200mila euro di debiti. Quisquilie.
Maligne sono anche le decine di persone che, dopo aver manifestato in suo favore in Piazza San Silvestro a Roma, hanno confessato di essere state pagate. Da chi? Da lui, naturalmente.
Ma sempre per il bene dell’Italia.

In assoluta malafede era anche quello strano ed inquietante personaggio che, non più tardi di qualche settimana fa, fantasticava di fantomatiche offerte in denaro ricevute dall’onorevole Antonio Razzi (Idv, naturalmente) per passare agli scranni della maggioranza. Il fatto che Razzi sia effettivamente passato alla maggioranza e che abbia lo stesso nome e la stessa faccia di colui che qualche settimana prima denunciava il tentativo di corruzione, è pura casualità.
Dando la propria fiducia a quella maggioranza che poche settimane prima gli offriva ricompense in cambio di un voto, Razzi ha fatto una chiara ed esplicita scelta di responsabilità.
Per il bene dell’Italia.

Guai a toccare il soldato Calearo, poi. L’industriale eletto nelle file del Pd è corso in soccorso di Berlusconi – confermando così di meritare la fiducia riposta in lui da Veltroni – perché “gli imprenditori me lo chiedono” e perché comunque, sia chiaro, lui è in Parlamento “per divertirsi”. Per il bene dell’Italia.

Niente da dire nemmeno sulla scelta della (ex)finiana-fururoliberista-sfiducista Catia Polidori. Certo, è molto marcata la somiglianza tra lei e la bionda che, non più tardi di un mese fa, aprì il primo congresso di “Futuro e Libertà”, durante il quale si annunciò l’uscita del partito dal Governo e si chiesero le dimissioni di Berlusconi. Ma sono solo coincidenze.
Così come una vera e propria coincidenza è stata la ragione che ha spinto la collega di partito Maria Grazia Siliquini a votare contro la sfiducia. Aveva dichiarato: “dieci minuti prima del voto mi guarderò allo specchio e deciderò”. Cosa ci poteva fare, la poverina, se lo specchio era rotto? E cosa può farci, ora, se Berlusconi le offre una poltrona da sottosegretarario? Dovrà accettare.
Per il bene dell’Italia.

Le proporzioni epiche di questa chiara, lampante ed indiscutibile vittoria politica del Governo e della maggioranza, lasciano ora aperti due possibili scenari, che vedono nella pronuncia della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento uno snodo fondamentale.
Sentenza che, a causa del clima surriscaldato degli ultimi giorni e per evitare che ne venisse data una lettura politica, è stata infatti genialmente spostata dal 14 dicembre a gennaio. Proprio quando dalla decisione della Corte dipenderà il futuro del Governo e quando, dunque, il clima sarà indubitabilmente disteso.

In base al verdetto della Consulta, Berlusconi avrà di fronte due alternative.
Nel caso in cui la Corte bollasse la legge come incostituzionale – ipotesi sostenuta dalla stragrande maggioranza dei giuristi – il Premier si giocherà il tutto per tutto chiedendo elezioni anticipate, potendo contare su una legge elettorale che lo favorisce e che fa invidia a quella con cui il listone fascista, nel 1924, ottenne la maggioranza in Parlamento.
Nel caso in cui la Corte desse il via libera al legittimo impedimento, Berlusconi vivacchierà fino ad ottobre 2011 - data in cui scadrà lo scudo per i suoi processi - cercando di allargare la maggioranza nell’unico modo che conosce. A quel punto si apriranno due strade: o l’approvazione del lodo Alfano (in)Costituzionale, per la quale è necessario che la campagna acquisti vada a buon fine, o nuove elezioni.
Il tutto, come sempre, nell’interesse e per il bene dell’Italia.

Viva l’Italia.

domenica 5 dicembre 2010

Vittorio e Marcello: dalle stelle alle stalle. Di Silvio

Non mi chiedete chi sono i politici compromessi con la mafia. Se rispondessi, potrei destabilizzare lo Stato
(T. Buscetta)




E' il 1974. Nixon si dimette per lo scandalo Watergate, la ABC trasmette la prima puntata di Happy Days, l’Italia piange gli otto martiri della strage neofascista di Piazza della Loggia. Un uomo varca per la prima volta il cancello di Villa San Martino, Arcore. Casa Berlusconi.
Occhialoni da vista in viso, accento siciliano, sguardo da duro. Il suo nome è Vittorio Mangano, il suo curriculum ricco di arresti e denunce. Berlusconi dice di averlo assunto come stalliere. E in effetti la splendida residenza appena prelevata a un prezzo stracciato dalle mani di Annamaria Casati Stampa, un’orfana minorenne, ospita, all’interno dello sterminato parco che la circonda, un maneggio.
C'è il maneggio, dunque, e c’è il fattore. Mancano, però, i cavalli. E mancheranno per tutti i due anni di permanenza dell'oscuro personaggio in villa.

Due anni che Mangano, raggiunto da moglie e figli ad Arcore, non trascorre tra biada e selle, ma vivendo a stretto contatto con il Cavaliere e la sua famiglia: porta i suoi figli a scuola, cena regolarmente allo stesso tavolo di Silvio anche in presenza di ospiti. Qualche volta invita pure dei suoi amici siciliani: secondo diversi pentiti, altro non sono che mafiosi latitanti.
Ogni tanto il soggiorno si interrompe. In ballo non ci sono corse equestri, ma i postumi della vita siciliana: due condanne definitive per ricettazione e porto abusivo di coltello.
Scontate in carcere la pena, Mangano torna a casa di Silvio, che, colto dal suo proverbiale spirito filantropico-garantista, lo riaccoglie a braccia aperte entrambe le volte. Che volete, sò ragazzi!
Berlusconi non fa una piega nemmeno quando i carabinieri lo avvisano che il suo inquilino-fattore è in realtà il basista di un tentativo di rapimento ai danni di un amico di lunga data del Cavaliere. Non c’è dunque da stupirsi se Silvio chiude un occhio anche quando dalla villa spariscono quadri, gioielli ed altri oggetti di valore: semplici rimborsi spese.

In realtà Berlusconi, che stupido non è, Mangano lo conosce eccome. La decisione di ospitarlo ad Arcore – come afferma il Tribunale di Palermo – è stata presa durante un incontro avvenuto negli uffici dell’Edilnord a Milano. Presenti Berlusconi e tre boss mafiosi di primissimo piano: Francesco di Carlo, boss di Altofonte che racconterà dell’incontro ai magisrati, Mimmo Teresi, boss della famiglia di Santa Maria del Gesù, e Stefano Bontate, il boss dei boss, il capo di Cosa Nostra che morirà ammazzato qualche anno dopo per mano dei Corleonesi di Totò Riina. Artefice dell’incontro Marcello Dell’Utri, amico intimo di Berlusconi, che trova nella mafia il riparo ideale per la sicurezza del Cavaliere. Secondo la sentenza della Corte d’Appello di Palermo che lo condanna a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, Dell’Utri è stato l’intermediario che ha permesso a Cosa Nostra di estorcere favori e denaro a Berlusconi e alle sue aziende. In pratica il Cavaliere, preoccupato dai sequestri e dalle minacce della mafia, non si sarebbe rivolto ai Carabinieri e alla magistratura per chiedere protezione, ma alla mafia stessa. Questione di gusti.

Nel 1976, due anni dopo il suo arrivo, Mangano lascia per sempre Villa San Martino. Ma Dell’Utri non lo abbandona. Marcello, che tra gli anni '70 e '80 partecipara ad almeno 2 cene tra boss mafiosi di primo livello, riesce a farsi intercettare dai carabinieri mentre discute al telefono con Mangano di cavalli da recapitare in albergo – secondo Paolo Borsellino quando Mangano parla di cavalli intende partite di eroina – e ad incontrare per almeno 2 volte (nel novembre del 1993, mente lavora alla creazione di Forza Italia) il boss mafioso, reduce da una condanna a 10 anni per traffico di droga (non a caso Borsellino lo definisce come la “testa di ponte di Cosa Nostra al nord” per il traffico di droga). Nuovamente arrestato nel ’95, Mangano subirà altre 3 condanne definitive: nel ’99 verrà condannato a 15 anni per droga e ad altri 15 per estorsione; nel 2000 verrà condannato all’ergastolo per duplice omicidio. Morirà in carcere il 23 luglio dello stesso anno. Hai capito questi fattori?
Berlusconi sembra invece volersi lasciare alle spalle questo ingombrante passato. Che, tuttavia, stando almeno alle dichiarazioni del finanziere Filippo Rapisarda e di alcuni pentiti, qualche segno lo lascia. Come i 113 miliardi di lire di provenienza sconosciuta (circa 250milioni di euro attuali) che tra il 1975 ed il 1983 rimpinguano le holding della Fininvest. Da dove vengono questi soldi? E’ il tesoro di Stefano Bontate, come sostengono i pentiti? Non lo sapremo mai. Il 26 novembre 2002, quando i giudici di Palermo entreranno a Palazzo Chigi per porgli questa semplice domanda chiarificatrice, Berlusconi si avvarrà della facoltà di non rispondere.

Chi è, allora, Silvio Berlusconi? Un complice inconsapevole? Una vittima inerme? O un imprenditore colluso? Domande che non trovano risposte. A meno che non si voglia dare retta a Frank Coppola, celebre mafioso degli anni ‘60 che, interrogato da un magistrato su cosa fosse realmente la mafia, rispose: “Poniamo che ci sia un concorso per un pubblico ufficio e ci siano tre candidati: uno colluso, uno stupido e uno molto vicino al governo. Vincerà sempre quello stupido.

Questa è la mafia”.

mercoledì 17 novembre 2010

Giochi a somma (non) zero

Un uomo non dovrebbe mai vergognarsi di confessare di avere torto. Il che è come dire che oggi è più saggio di quanto non fosse ieri
(Jonathan Swift)


Gioco a somma zero: situazione nella quale il guadagno-perdita di un partecipante è perfettamente bilanciato dal guadagno-perdita di un altro partecipante. Tradotto: se qualcuno ha torto, qualcun'altro ha ragione; se qualcuno ci perde, qualcun'altro ci guadagna. Non in Italia.

Prendiamo le polemiche relative alle accuse mosse da Roberto Saviano nell'ultima puntata di “Vieni via con me” sui rapporti tra Lega e 'Ndrangheta al Nord. Lo scrittore ha sbagliato.
Innanzitutto perchè l'attribuzione dello status di “interlocutore” delle organizzazioni mafiose ad un solo partito è un errore talmente grossolano da sembrare volutamente capzioso per chi, come Saviano, conosce molto bene le logiche dei clan e la loro “apartiticità”, duttilità e trasversalità politica, requisito fondamentale per massimizzare le possibilità di infiltrazione nei piani alti della politica. Trasversalità che, come dimostrano le indagini ai danni dell'ex sindaco di Trezzano sul Naviglio Tiziano Butturini (Partito Democratico) da parte della direzione disterttuale antimafia, vige anche al Nord. Par condicio padana.
In secondo luogo poichè trae da una notizia vera, seppur riportata in modo frettoloso, generalizzazioni pressapochiste. I fatti sono questi.
Angelo Ciocca, consigliere regionale lombardo in quota Lega, viene filmato mentre discute con Pino Neri, esponente della 'Ndrangheta, sulla possibilità di candidare al Comune di Pavia un uomo dell'organizzazione calabrese. Risultato: un nulla di fatto. I vertici della Lega si oppongono alla candidatura ed il piano salta. Sono fatti sufficienti per stimolare un dibattito e, magari, un repulisti all'interno del partito di “Roma ladrona”? Assulutamente si. Bastano per accusare la Lega di “interloquire” con le organizzazioni mafiose al nord? Assolutamente no. Ci sono altre e più consistenti prove dei legami 'Ndrangheta-Lega Nord? Benissimo, che Saviano ne parli. Non ci sono? Allora eviti di esporsi all'immancabile controffensiva della Lega. Che, a proposito di giochi a somma (non) zero, non perde occasione per fare brutta figura e buttarla in caciara, vantandosi delle migliaia di arresti ai danni di boss mafiosi (come se fossero merito del pregiudicato Ministro dell'Interno Maroni e non del coraggio dei magistrati e di quelle forze di polizia ancora degne di tale nome) e chiudendo gli occhi di fronte ad un problema reale e preoccupante: quello della sempre più capillare presenza di organizzazioni criminali di stampo mafioso al nord ed in Lombardia.

Saviano, dunque, ha sbagliato. Diffidate da chi lo difende solo in quanto minacciato dalla Camorra, come se il solo fatto di avere la scorta imprimesse alle opinioni del perseguitato un timbro di verità, correttezza ed insidacabilità . L'esercizio del pensiero critico, vera e preziosa arma per difenderci ed uscire da questo zoppicante regime, è un atto disinteressato di onestà intellettuale: non può e non deve fare sconti a nessuno. Può essere sbagliato, ma rimane legittimo e desiderabile ove sincero ed argomentato. Diffidate da chi, in politica, vi chiede di amarlo: non vuole altro che la vostra supina sottomissione.

Ma il “se Atene piange, Sparta non ride” reso celebre da Enrico Mentana (a proposito: finalmente un telegiornale degno di tale nome) ed il nostro più prosaico gioco a somma (non)zero fanno vittime anche nel campo della politica “giocata”, quella fatta di voti e sondaggi elettorali. Protagonista, come al solito, il PD, vero e proprio guru del “giocare e perdere”.
Se a livello nazionale il PD perde consensi (26,5% contro l'oltre 33% del 2008) nonostante la parallela picchiata del Pdl, sceso ormai stabilmente sotto il 30% (28,5%), a livello locale il partito di centro-sinistra (nel senso che, come suggerisce il trattino, a volte sta al centro, altre volte sta a sinistra) fa addirittura peggio.
Nelle primarie di Milano il PD è riuscito ad incappare in una doppia sconfitta: perdere circa 15mila elettori nelle primarie cittadine (nel 2006 furono circa 82mila) e perdere le stesse primarie, nonostante il candidato avversario, Giuliano Pisapia, rappresentasse un partito, Sinistra Ecologia e Libertà, circa cinque volte più piccolo per bacino elettorale. Non una grande novità visto il recente passato (in)glorioso, quando qualsiasi candidato sostenuto alle primarie dal PD andava incontro a sconfitta certa. Leggendarie le sconfitte di Pistelli contro Renzi a Firenze e di Boccia (doppietta) contro Vendola in Puglia. Lo stesso Vendola che minaccia di sbaragliare le eventuali primarie di coalizione.
A meno che il Partito Democratico, per uscire e superare definitivamente il berlusconismo, non decida per un'astutissima alleanza con Udc e Fini (ovvero gli alleati di Berlusconi degli ultimi 12 e 16 anni) nel tavolo da gioco della politica italiana.
C'è un vecchio detto nel poker: “se dopo mezz'ora di partita non hai ancora capito chi è il pollo nel tavolo, allora il pollo sei tu”.

In Italia, la partita dura da 16 anni.

sabato 30 ottobre 2010

L’eterno ritorno del banale


"L’abitudine rende sopportabili anche le cose spaventose"
(Esopo)


Il buon vecchio Nietzsche sorriderebbe compiaciuto osservando la squallida ciclicità della politica italiana. Il tempo passa, il morboso intreccio tra fatti avvilenti e loro (in)degni protagonisti si ripete tristemente, ripresentandosi con una sconcertante circolarità. La Trattoria Italia, insomma, non chiude mai.

Cambiano solo gli ingredienti delle pietanze servite. Ieri Napoli luccicante entro un mese, oggi splendente entro 3 giorni. Ieri il lodo ordinario, oggi il lodo (in)costituzionale. Ieri l’ “ingrata” Veronica Lario, oggi la “rompicoglioni” Marcegaglia. Ieri l’ingenuo Scajola, oggi lo sbadato Fini. Ieri nel lettone di Putin, oggi nella vasca idromassaggio. Condite il tutto con una spruzzata di rutti-pernacchie-S.P.Q.R. di Bossi, capostipite di quel fiero popolo padano che,schiusesi le uova di trota, ha potuto ritrovare il proprio spirito celtico nel degno erede (nonchè figlio) del suo storico ed indomito leader, ed il piatto è finito, pronto per essere servito ad ogni elezione.

Ma il piatto del momento è il “caso Ruby”. “Cos’ha fatto di strano Berlusconi? L’Italia va a puttane, lui si adegua” potrebbero dire i maligni.
La questione, però, è più sottile e va ben al di là del facile (e spesso falso) moralismo vomitato in questi giorni dai politici, dai media e dalle immancabili organizzazioni cattoliche. I punti da chiarire dell’ennesimo sexy-scandalo (che di sexy, per la verità, ha ben poco) non riguardano nè il numero delle ragazze che hanno partecipato alla presunta orgia, nè la marca dei loro reggiseni né il nome del procacciatore di fanciulle.
Certo, Annamaria Casati Stampa si roderebbe l’anima nell’immaginare un’intera stanza della prestigiosa residenza di famiglia adibita ad Harem. La stessa villa che nel 1974 Cesare Previti, pro-turore dell’allora minorenne ed orfana Annamaria, vendette a Berlusconi per 500 milioni di lire: più o meno il valore di uno dei quadri contenuti all’interno della Pinacoteca (eh già, l’antico monastero benedettino, oltre ad una biblioteca da 10mila volumi, sterminati terreni tutt’intorno ed i manieri del famigerato “Stalliere” Vittorio Mangano possiede anche una prestigiosa pinacoteca ). Ma – si potrà dire – fatti suoi.

Il "caso Ruby" porta  però a galla alcune questioni fondamentali, delle quali i vari giornali e telegiornali sembrano, incredibilmente, disinteressarsi. Semplici domande alle quali un Primo Ministro dovrebbe dare delle risposte.

Domande che chiariscano, prima di tutto, le circostanze che portano il capo di un Governo ad:

  • accogliere nella propria abitazione una minorenne avvezza ai furti, a scappare dalle case famiglia a cui le autorità la affidano in seguito alle sue “ragazzate”, a sviluppare una rete di conoscenze nell’industria della notte;
  • regalarle gioielli somme in denaro, che variano, a seconda delle fonti, dai sette ai centocinquanta mila euro, comprensivi di una Audi nuova di pacca;
  • dare il proprio numero di cellulare e quello del suo capo scorta a lei e ad altre giovani ragazze dalle non meglio precisate occupazioni;
  • affannarsi nel tentativo di impedire l’arresto, mentendo sull’identità della ragazza (“è la nipote del presidente egiziano Mubarak”) ed esercitando pressioni indebite sulle forze di polizia;
  • affidare la ragazza alla custodia di Nicole Minetti, igienista dentale e ballerina televisiva fatta eleggere come consigliere regionale in Lombardia, che, tuttavia, dichiara di non aver mai ospitato Ruby.

Domande che, magari, chiariscano:

  • se e perché agli inizi di settembre Luca Giuliante, dirigente del Pdl milanese, tirò fuori Ruby dagli uffici della polizia ferroviaria della Stazione Centrale, dove i poliziotti l’avevano accompagnata poiché priva di documenti ma con migliaia di euro in contanti al seguito;
  • se è una coincidenza il fatto che lo stesso Giuliante, attuale avvocato di Ruby, sia anche l’avvocato di Lele Mora e Roberto Formigoni nonchè tesoriere del Popolo delle Libertà;
  • se le dichiarazioni rilasciate da Ruby alle autorità e prontamente ritrattate nelle interviste successive siano o meno il frutto di un ricatto-estorsione perpetrato dalla stessa giovane ai danni di Berlusconi e, soprattutto, se il Premier si sia reso ricattabile da lei o da altre ragazze.

Finora Berlusconi, sostenuto a gran voce e con sprezzo della decenza dal suo esercito di yes men, non ha blaterato altro che la solita, patetica barzelletta del filantropo premuroso.
Va così: gli altri popoli hanno il governo che si meritano, noi le barzellette.

Sporche.

martedì 27 aprile 2010

L'inizio della...Fini?

“La gente ti chiede una critica, ma in realtà vuole solo una lode”
(W. S. Maugham)




Il re è nudo. In casa sua. Fortunatamente, dato il soggetto in questione, solo in termini figurati.

Lo scontro Fini-Berlusconi ha scoperchiato, tutt'a un tratto e come nel più squallido dei varietà pomeridiani, ciò che si celava dietro alla favola “del partito del fare”, “del 60%”, “dell'amore che vince sempre sull'invidia e sull'odio”. E cioè la meno incantevole ma più realistica immagine di un partito di carta, fondato sulla devozione (per alcuni, ma soprattutto per alcune, pronazione) al capo, su di un culto del leader che sempre più spesso degenera in vera e propria idolatria verso un dio in carne (o meglio plastica) ed ossa, invece che su idee, valori e proposte politiche. Un partito privo dei più elementari meccanismi di democrazia interna, in cui il pluralismo viene quotidianamente annullato, le (poche) voci fuori dal coro riportate nei ranghi o cacciate, la meritocrazia vista con sospetto ed il clientelismo coltivato a piene mani.
Insomma, un non-partito (o un partito in piena regola, visti i tempi che corrono).

Questa premessa è fondamentale per capire le ragioni dell'asprezza dello scontro e delle ire di Berlusconi.
Per la prima volta in 15 anni il Re si è accorto di dover rendere conto a qualcuno in casa propria.
Non sono tanto i contenuti delle critiche mosse da Fini, dunque, ad irritare Berlusconi. Certo, il fatto che una personaggio tutt'altro che immacolato come l'attuale presidente della Camera debba ricordare al Presidente del Consiglio di combattere le organizzazioni mafiose invece di attaccare chi, come Saviano, le denuncia, di evitare di oltraggiare quotidianamente le istituzioni di garanzia della Repubblica, di smetterla di usare giornali e tv di famiglia per combattere i nemici e reprimere il dissenso e magari (addirittura) di smetterla di possederne, la dice lunga sullo stato di salute della democrazia in Italia. Il vero problema però, trattandosi del leader di uno stato che, formalmente, si dice ancora democratico, è il fatto stesso che questi dimostri, una volta per tutte, la sua quasi antropologica insofferenza alla critica ed al dissenso.

E si che il monarca di Arcore aveva pensato a tutto per evitare che la sua reggia venisse oltraggiata. Telecamere ovunque, il logo con il suo nome a caratteri cubitali in bella mostra, gli interventi dei suoi cortigiani ad anticipare il suo comizio ed il discorso di Fini, lo scudiero ribelle, relegato al tardo pomeriggio, quando i giornalisti stanno già pensando a come trascorrere la serata.
Poi, tutt'a un tratto, il fuori programma: una frase di troppo, Fini che fa per andarsene e la mossa che si rivelerà un boomerang: l'invito sul palco. E qui avviene l'irreparabile, proprio su quel terreno mediatico e d'immagine che Berlusconi aveva da sempre monopolizzato. Il ribaltamento dei ruoli è totale: il leader relegato ai margini del palco che sbraita a microfono spento mentre il rivale, al centro della scena, denuncia, critica, attacca. Lesa maestà!
La replica di Berlusconi, ormai alle corde, è il solito e confuso refrain del complotto e delle menzogne contro di lui. Fini reagisce di nuovo: si alza, punta il dito, quasi lo schernisce. Cala il sipario.
Per l'ex leader di An una vittoria in trasferta.
Per colui che ha trasportato i linguaggi della pubblicità in politica una clamorosa sconfitta in casa, senza i tifosi ospiti.

E con l'arbitro a favore.


sabato 27 marzo 2010

Dichiarazione di v(u)oto

I cittadini contano solo il giorno delle elezioni
(J.J Rousseau)





Dunque, ci siamo. Domani (dalle 8 alle 22) e dopodomani (dalle 7 alle 15, salvo decreti interpretativi), si voterà per le elezioni regionali ed, in alcuni casi, per le elezioni comunali.

Per le elezioni regionali la scheda è verde e prevede due possibili votazioni: quella del presidente della regione e quella dei consiglieri regionali.
Per votare il presidente regionale si può:
- tracciare una croce sul nome del candidato prescelto;
- tracciare una croce sulla lista regionale collegata al candidato prescelto (la si troverà sotto al nome del candidato presidente), uguale in tutta la Lombardia
- tracciare una croce sul simbolo di una lista provinciale collegata al candidato prescelto. In questo modo il voto per il consiglio regionale non andrà ai candidati della lista regionale collegata al candidato presidente prescelto ma al capolista della lista provinciale votata (o al candidato preferito all'interno di quella lista, specificandone il nome nell'apposito spazio)

Se si vota solo per il candidato presidente o per il relativo “listino”, uguale in tutta la regione, il voto per il consiglio regionale viene attribuito in automatico agli appartenenti alla stessa lista regionale.
Se invece si opta per il cosiddetto “voto disgiunto”, ovvero per la votazione di un candidato presidente e di una lista ad esso non collegata, dopo aver sbarrato il nome del candidato presidente prescelto si dovrà tracciare una croce sulla lista provinciale preferita. In questo caso, ovvero votando per una lista non collegata al candidato presidente prescelto, si avrà la possibilità di esprimere una preferenza per il consigliere regionale preferito all'interno della lista stessa, scrivendo il suo nome nell'apposito spazio.

In ogni caso potete trovare tutte le liste provinciali e regionali qui.

Per quanto riguarda le elezioni comunali potete invece trovare una breve guida qui.

Essendo convinto del fatto che non esista un “voto giusto” in sé, mi limito a presentare la mia scelta e a segnalare alcuni candidati che ritengo particolarmente “meritevoli”.
Voterò per il “Movimento 5 stelle”, sia per quanto riguarda il presidente di regione (Vito Crimi) che per quanto riguarda il consiglio regionale, esprimendo la mia preferenza per Bruno Misculin.
Ho conosciuto Bruno personalmente nei mesi di collaborazione con il meetup “amici di Beppe Grillo” di Milano. Persona di estrema umiltà, semplicità, umanità, dotato di un grande cuore e di grande competenza, modello di indomito impegno civile e di genuina passione politica. Un esempio per tutti noi.
L'iniziativa ed il programma nascono per iniziativa di Beppe Grillo e, soprattutto, delle centinaia di gruppi volontari che in questi ultimi anni si sono impegnati quotidianamente nelle battaglie per i diritti civili, per l'ambiente, per la legalità e per la giustizia. Persone qualsiasi che si sono rimboccate le maniche nel tentativo di introdurre una ventata di aria nuova nella politica stantia e putrefatta dell'Italia di oggi.
I candidati sono tutti incensurati (!!), residenti nella circoscrizione in cui si candidano, mai iscritti a partiti.
Il programma prende spunto dalle storiche battaglie di Grillo: dall'acqua pubblica, al progetto “rifiuti zero”, alla democrazia diretta, al wireless gratuito, al no agli inceneritori ed al nucleare. Fondamentale l'importanza attribuita alla rete, tramite la quale i candidati si impegnano a comunicare costantemente con tutti i cittadini, proponendo la diretta via web delle sedute del consiglio regionale e discutendo in rete, prima della loro presentazione ufficiale, le varie proposte di legge.
Dunque un voto per un rinnovamento vero, fuori dalle logiche affaristiche e clientelari dalla partitocrazia italiana.

Per quanto riguarda le liste circoscrizionali di Milano, segnalo la presenza di:
- Giulio Cavalli per l'Italia dei valori, giovane regista-scrittore che ha fatto della sua professione uno strumento di denuncia ed informazione in tema di libertà e diritti civili (per questo vive da qualche mese sotto scorta, minacciato dalla mafia)
- Basilio Rizzo e Vittorio Agnoletto per Rifondazione Comunisti Italiani, anime della Milano che resiste, da sempre in prima linea per la difesa della democrazia e della Costituzione.
Per quanto riguarda la provincia di Bergamo segnalo la presenza di Daniele Martinelli, giornalista d'assalto, per questo “relegato” al web.

Mi astengo da qualsiasi commento sulla lista del presidente uscente Formigoni, il quale, leggi alla mano, non potrebbe essere rieletto in quanto giunto ormai al suo terzo mandato. L'articolo 2 della legge 165 del 2004 stabilisce infatti la non eleggibilità immediata di un candidato presidente che abbia già svolto 2 mandati consecutivi. Il vecchio Roberto si difende dicendo che la legge, essendo stata approvata nel 2004, non poteva riguardare i suoi 2 mandati precedenti (se eletto Formigoni sarebbe al quartodicoquarto mandato consecutivo, alla faccia del rinnovamento). Penati, candidato presidente del Pd, ha subito espresso la sua solidarietà in quanto il suo partito è nella stessa condizione in un' altra regione. Tuttavia Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, ha fatto intendere che la possibilità di una destituzione postuma di Formigoni in caso di rielezione è concreta.


Dunque, non ci resta che...ridere.
 
 

lunedì 15 marzo 2010

La legge è uguale per tutti...voi

Per i nemici le leggi si applicano. Per gli amici si interpretano
(G. Giolitti)




Lo dicevo, io, che la sostanza era più importante della forma. Quando i vigili mi multavano per sosta su un passaggio pedonale in zona disabitata, quando scrivevo scuola con la q, quando dimenticavo di iscrivermi agli esami, quando arrivavo tardi al lavoro.
Mi hanno sempre risposto picche.

Già, direte voi: “non hai il 40% (o il 60% o il 75%, a seconda del grado di sottomissione al capo della fonte che lo riporta) dei consensi del popolo”. Tradotto: “non conti un cazzo, quindi sei costretto a rispettare quelle odiose formalità che voi poveracci chiamate leggi”.
Ovviamente loro non ve lo dicono così.
Vi dicono che bisogna garantire la democraticità della competizione elettorale, che bisogna consentire la partecipazione delle diverse forze politiche, che si deve impedire alla magistratura di scrivere le liste elettorali, ma soprattutto che non si può negare al (percentuale a scelta...chi offre di più??) dell'elettorato il diritto di votare per il proprio partito di riferimento.
Sulle prime tre considerazioni non mi dilungo. Mi fa solo sorridere sentire parlare di democrazia e di (equa) partecipazione delle diverse forze politiche da chi, oltre ad essere capo del governo e leader (o meglio proprietario) del partito di maggioranza, attacca costantemente magistratura ed istituzioni di garanzia in barba a Montesquieu ed alla sua tripartizione dei poteri dello stato, attraverso un uso militare delle sue 5 reti televisive nazionali (3 le possiede, 2 le controlla direttamente) e del maggiore gruppo editoriale del paese.
Sulla quarta, invece, si possono fare alcune considerazioni.

Innanzi tutto l'esclusione delle liste, contro cui il governo si è mosso, non nega alcun diritto ai cittadini.
Al contrario garantisce che la competizione elettorale avvenga secondo all'interno di un preciso insieme di regole, valide (ed uguali) per tutti.
L'esclusione delle liste pdl in Lazio e Lombardia non è un gesto eversivo da parte di magistrati politicizzati: è un atto dovuto che tutela lo stato di diritto e la democrazia. Mi chiedo dove fossero questi paladini della democrazia, questi maestri della “sostanza oltre la forma”, questi scudieri dei diritti civili quando liste di liberi cittadini o di pariti “minori” non potevano presentarsi alle elezioni, formalmente perchè non avevano raggiunto il numero minimo di firme, sostanzialmente perchè subivano la loro condizione di subalternità nei confronti dei partiti “maggiori”.
In secondo luogo il decreto legge crea un precedente che mina le fondamenta dello stato democratico: il partito più grande, per il solo fatto di essere tale, è più forte delle leggi (che, solo per lui, vanno “interpretate”). Il decreto “interpretativo” proposto dal governo non è infatti una sanatoria, ovvero un provvedimento che elimini l'obbligo dei i partiti che vogliano prendere parte alla competizione elettorale di presentare i requisiti formali previsti per legge. In questo caso, l'assunto del prevalere della sostanza rispetto alla forma sarebbe quantomeno egualitario. Il decreto impone invece che la “sanatoria” valga solo per quei partiti che possano dimostrare la loro presenza all'interno del tribunale alle ore 12 del 27 Febbraio (termine di presentazione delle firme) e le cui liste siano viziate da errori formali (e il cui leader è un tipetto basso, dal cranio bitumato e con tessera P2 in tasca, potevano aggiungere in un impeto di imparzialità).
E le centinaia di liste che, negli anni, sono state puntualmente cassate per gli stessi motivi? E le migliaia di elettori che si sono visti negato il diritto di votare per il proprio partito? Non contano nulla. Tanto sono piccoli e non possono ribellarsi.

Ora: che una maggioranza infarcita di (ex?) fascisti, piduisti e tangentisti ci spieghi che cos'è la democrazia, è già abbastanza desolante. Ma il fatto che la spacci per il soverchiamento della maggioranza ai danni delle minoranze, che in realtà, proprio per il deficit fisiologico che scontano nei confronti delle forze maggiori in termini di mezzi e risorse, dovrebbero essere quelle maggiormente tutelate, cancella definitivamente qualsiasi speranza. Tantopiù se il Presidente della Repubblica, il Vittorio Emanuele III del nuovo millennio, scambia il suo ruolo per quello di scrivano al servizio del governo (e non della Costituzione), tanto da far rimpiangere l'impresentabile Cossiga.

Ma ciò che più irrita è l'incompetenza di una classe politica trasformata in uno stuolo di portaborse e di raccomandati, è l'arroganza di un potere ormai totalitario e che, in quanto tale, non contempla la possibilità di pagare le conseguenze delle proprie incapacità, violentando (o meglio “interpretando”) le leggi in funzione dei propri, soliti, interessi.
Il messaggio è chiaro: “La palla è mia, e decido io chi gioca”.

Il culo, come al solito, è il nostro.

venerdì 19 febbraio 2010

Tranquilli, va tutto male

Adoro i partiti politici: sono gli unici luoghi rimasti dove la gente non parla di politica
(O. Wilde)



11 Febbraio 2010. A 17 anni e 359 giorni dalla sua nascita, come ogni buon padre di famiglia, anche Milano festeggia la sopraggiunta maturità del figlio.
Il 17 Febbraio fu tale Mario Chiesa, socialista e presidente dell'ospizio “Pio Albergo Trivulzio”. Preso con le mani nella marmellata mentre intascava una tangente da 7 milioni di lire, cercò di disfarsi dell'altra tangente da 37 milioni di lire appena incassata gettandola nel water e tirando lo sciacquone. Fatalità volle che il gabinetto si intasò, scoperchiando, insieme al prevedibile e poco nobile contenuto, il più grande sistema di corruzione che la storia delle democrazie moderne ricordi.
Diciotto anni dopo è tale Camillo Milko Pennisi, consigliere comunale in quota Pdl e presidente della commissione urbanistica, ad intascare una mazzetta da 5 mila euro. La somma sarebbe la seconda tranche di una tangente da 10 mila euro versata da un imprenditore edile per sbloccare una pratica relativa alla costruzione di un palazzo nel quartiere Bovisa. Il tutto è avvenuto nei pressi Palazzo Marino, la sede del Comune della Milano in cui va tutto bene e se non va bene la colpa è dell'immigrato di turno, “da espellere casa per casa, piano per piano” (Matteo Salvini, Lega Nord), sull'onda del “ciapa el camel, la barcheta e te turnet a ca'”, rafrain di successo partorito dal genio raffinato di Piergianni Prosperini. Che, ironia della sorte, a casa non ci potrà tornare. O almeno per un po'.
L'assessore ai Giovani, allo Sport ed alla Promozione dell'Attività Turistica della regione guidata da Roberto Formigoni è infatti in carcere dal 16 Dicembre, con l'accusa di corruzione e turbativa d'asta. Secondo i pm, Prosperini avrebbe incassato una tangente da 230 mila euro su 5 conti correnti svizzeri a lui riconducibili nell'ambito dell'assegnazione di un appalto da 7,5 milioni di euro per la promozione televisiva del turismo in Lombardia.
Percorrendo la nostra sgangherata penisola le cose non migliorano.
A Bologna il sindaco pidino Flavio Delbono è costretto a dimettersi per via di alcuni viaggi di piacere (Messico, Santo Domingo e Capri le destinazioni) spacciati per missioni istituzionali (e dunque rimborsati con i soldi dei contribuenti), durante l'incarico di vicepresidente della regione Emilia Romagna. A denunciare il tutto, come nella migliore (o peggiore) delle sitcom, l'ex fidanzata Cinzia Cracchi, mossa, più che da un'improvviso slancio etico, dalla sete di vendetta per il declassamento a centralinista subito in seguito alla fine della relazione sentimentale con Delbono.
Il PD, preoccupato dall'infausta ipotesi che una mossa del genere possa aumentare i propri consensi e, non sia mai, possa far trasparire l'idea di un partito coeso intorno ad un'unica linea politica, salda e definita, , dopo il colpo al cerchio ne dà uno alla botte, candidando i pluri-imputati De Luca (in Campania) e Loiero (in Calabria).
Il primo, sindaco-sceriffo di Salerno dal '93 al 2001 e dal 2006 ad oggi, va in giro da giorni a vantarsi dei suoi due rinvii a giudizio (il primo per associazione a delinquere, truffa e corruzione, il secondo per truffa aggravata e falso). Il Robin Hood campano sostiene che la sua unica colpa sia quella di aver concesso la cassa integrazione a più di 200 dipendenti di una fabbrica. Il problema, secondo i Pm, è che la chiusura della fabbrica e le illegittime modifiche al piano urbanistico che trasformarono la “zona agricola” in “zona turistica”, furono il frutto di una speculazione attraverso la quale De Luca ed i suoi soci garantirono vantaggi illeciti a sé e ad altri. Basti pensare che Vincenzo Grieco, proprietario dei terreni in questione ed amico personale di De Luca, ricevette dalla Sea Park, la ditta incaricata di edificare il progetto sostitutivo (un parco acquatico, mai realizzato), 29 miliardi di lire in fondi neri. Al comune di Salerno andarono invece 22 milardi di lire in forma di oneri concessori non dovuti. Il buon De Luca, che oggi predica trasparenza e sbandiera sul proprio sito gli atti delle indagini che ne “alleggerirebbero” la posizione processuale, si dimentica di ricordare che nel 2006 il parlamento si affannò per impedire ai pm di utilizzare le intercettazioni telefoniche che lo riguardavano. O ancora di ricordare la condanna in primo grado a 4 mesi di reclusione e 12 mila euro di multa per sversamento di rifiuti in un sito di stoccaggio provvisorio ed abusivo da lui subita. Non ci si può dunque stupire del fatto che De Luca si dimentichi di ricordarci come il “vizietto” sia un fatto di famiglia: la moglie è sotto processo per falso ed abuso mentre il figlio è indagato per reati fiscali. Beata gioventù.
Agazio Loiero, il candidato PD alla regione Calabria, è stato appena rinviato a giudizio e rischia una condanna ad un anno e sei mesi di reclusione per abuso d'ufficio nell'ambito dell'inchiesta “Why Not”, avviata da Luigi De Magistris nel 2006. Pochi mesi fa, Loiero aveva dichiarato che, in caso di rinvio a giudizio, non si sarebbe ricandidato. Anche nel PD calabro, dunque, la coerenza è di casa.
Completa la desolante panoramica dell'attuale sistema politico-istituzionale lo scandalo legato al sistema “gelatinoso” della Protezione Civile, che dimostra come, dal '92 ad oggi, le forme di pagamento e di ricompensa si siano decisamente evolute: dalle ormai superate banconote accartocciate, ai moderni festini, talvolta movimentati da qualche formidabile “massaggio anti-stress”. E' la riprova di come la carta si svaluti più in fretta della carne (femminile).
Marcello Dell'Utri, in una recente intervista, ha fotografato la situazione con l'abilità propria dei grandi procacciatori di stallieri, introducendo una nuova categoria professionale: il “politico per legittima difesa”.

Quando si dice lavorare per necessità.

lunedì 25 gennaio 2010

Una dieta italiana

Berlusconi? Non ho mai visto un innocente darsi tanto da fare per farla franca
(D. Luttazzi)




Adolescenti italiane, donne di mezza età, pensionate in menopausa: dimenticate pozioni magiche, massacranti sedute di spinning, diete a punti, pillole, creme, erbe ed insalate scondite. Per perdere le tanto agognate tre taglie c'è un metodo infallibile, rapido ed indolore (o meglio “insudore”): ridurre di tre taglie il proprio guardaroba. Avete capito bene: basterà comprare abiti più stretti et voilà, tre taglie nel giro di una chiusura di cerniera. Non lo dico io: lo dice il governo.
L'imminente riforma sul cosiddetto “processo breve” si basa infatti sulla stessa logica, geniale ed innovativa: si accorciano i tempi di prescrizione per diminuire la durata dei processi. Come dire che uscendo di casa senza ombrello, smetterà di piovere. Ma procediamo per gradi.
Il disegno di legge “misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi” (questo il nome-travestimento della legge) si basa sulla modifica dei tempi di prescrizione dei reati, quei tempi oltre ai quali un reato si estingue e l'imputato non può più essere condannato.
Fino ad oggi questi termini di prescrizione erano commisurati all'entità di ciascun reato, in modo da consentire alla giustizia di accertare per tempo la colpevolezza o l'innocenza dell'imputato. Con la nuova legge , invece, si raggruppano tutti i possibili reati ed i relativi tempi di prescrizione in soli tre gruppi:
reati puniti con pene inferiori ai 10 anni: i termini per giungere a sentenza non dovranno superare i 3 anni per i processo di primo grado, i 2 anni per i processi in Appello e l'anno e mezzo per i processi in Cassazione. Durata massima del processo: 6 anni e mezzo
reati puniti con pene superiori ai 10 anni: i termini per giungere a sentenza non dovranno superare i 4 anni per i processo di primo grado, i 2 anni per i processi in Appello ed i 6 anni e mezzo per i processi in Cassazione. Durata massima del processo: 7 anni e mezzo
reati di mafia e terrorismo: i termini per giungere a sentenza non dovranno superare i 5 anni per i processo di primo grado, i 3 anni per i processi in Appello ed i 2 anni per i processi in Cassazione. Limitatamente a queste due categrie di reato, il giudice potrà aumentare di un terzo i termini di prescrizione ove il processo fosse particolarmente complesso (es. molti imputati). Durata massima del processo: dai 10 ai 15 anni
Considerando che in Italia la durata media del processo penale è di circa 8 anni e che all'interno del calcolo di questa media vengono inclusi processi che si concludono in tempi rapidissimi (guida senza patente, furto semplice, oltraggio a pubblico ufficiale, ecc..) il risultato è devastante: oltre 100 mila processi che evaporano all'istante (fonte Associazione Nazionale Magistrati).
Non stiamo parlando di caramelle rubate: si va dallo stupro alla corruzione, dalla frode fiscale agli omicidi colposi in ambito medico, dalle lesioni personali alla bancarotta preferenziale, dalla violenza privata al traffico di rifiuti, dalla ricettazione allo sfruttamento della prostituzione. Inoltre, secondo i magistrati, saranno condannati ad “estinzione certa” i processi per i crack Parmalat e Cirio, per le morti da amianto, per le morti bianche alla Tyssenkrupp nonchè il processo alla clinica S. Rita di Milano (la “clinica degli orrori”), dove i pazienti sani venivano operati per “fare cassa”.
Ora, voi vi chiederete: che cosa può mai indurre i nostri governanti ad approvare in tutta fretta una legge che, confondendo gli effetti che deriverebbero da un processo di “ragionevole durata” (ovvero la riduzione dei tempi di prescrizione) con la soluzione per giungere a tale “ragionevole durata” dei processi, garantisca l'impunità ad un gran numero di criminali e delinquenti, mortifichi la dignità delle vittime dei reati e comprometta in modo forse irreversibile quei principi di legalità e giustizia alla base di un qualsiasi stato civile che voglia (e possa) dirsi tale?
Memori delle altre diciotto leggi ad personam (arrotondamento per difetto) fatte approvare nell'ultimo decennio, i maligni potrebbero rispondere a colpo sicuro: la volontà di Berlusconi di salvarsi dai processi in cui è imputato. Eppure, leggendo il testo della legge, questo dubbio sembra svanire. Nonostante i processi a carico del nostro presidente del consiglio siano già in corso, infatti, la legge non ha effetto retroattivo e non può dunque influire sui tempi di prescrizione dei processi già avviati. Ma si sia, Berlusconi ne sa una più di Silvio. Quando meno te l'aspetti ecco la leggina, il cavillo che ti frega prima che te ne possa accorgere.
All'interno della legge c'è infatti una norma transitoria che allarga i nuovi, generosi, termini di prescrizione a quei processi che, benchè già in corso, si riferiscano a reati indultati (che beneficiano cioè dell'indulto approvato dal parlamento nel 2006 a larghissima maggioranza) o commessi prima del 2 maggio 2006, la cui pena sia inferiore ai 10 anni di reclusione. Come se non bastasse, per questi procedimenti l'estinzione per prescrizione scatta dopo appena due anni.
Occhio alle date.
I rinvii a giudizio dei due processi pendenti a carico di Berlusconi sono datati 10 Marzo 2006 (processo Mills per corruzione in atti giudiziari) e 22 Aprile 2005 (processo Mediaset sulla compravendita di diritti tv a prezzi gonfiati). Considerando la sospensione dei tempi di prescrizione dovuta al periodo in cui il lodo Alfano, poi bocciato dalla Corte Costituzionale, è rimasto valido (circa un anno e tre mesi)  il processo Mills si prescriverebbe il 10 Marzo 2009, mentre il processo Mediaset il 25 Aprile 2005. Cioè nel passato.
Nell'infausta (per Berlusconi) e remota ipotesi che qualche membro della sua maggioranza, stanco di calpestare e mortificare la propria dignità per garantire l'impunità al capo (leghisti di “Roma ladrona” dove siete??), contribuisca ad impedire la definitiva approvazione della legge, non temete: le vie del signor(ino) sono infinite. Già pronte sul tavolo due proposte di legge: una per togliere valore di prova alle sentenze passate in giudicato, l'altra per depenalizzare la corruzione “susseguente”.
La prima impedirebbe all'eventuale sentenza di condanna definitiva ai danni dell'avvocato Mills per corruzione in atti giudiziari (sarebbe stato corrotto dallo stesso Berlusconi) di fungere da prova del comportamento corruttivo di Berlusconi (non ridete, è tutto vero).
La seconda, cancellando il reato di corruzione “susseguente”, legalizzerebbe di fatto qualsiasi tipo di corruzione: al corruttore basterebbe infatti mettersi d'accordo con il corrotto, ricompensandolo non appena ricevuto il favore pattuito.
Nei giorni in cui Totò Cuffaro, l'ex presidente della regione Sicilia interdetto dai pubblici uffici e prontamente promosso senatore da Casini nelle file dell'UDC, viene condannato a sette anni per favoreggiamento alla mafia (sentenza di secondo grado), nei giorni in cui per lo stesso presidente Berlusconi si profila un nuovo rinvio a giudizio per frode fiscale e appropriazione indebita (e dunque un'altra fuga dalla giustizia e dalle proprie responsabilità), ritorna alla mente un episodio del lontano 1974.
L'allora presidente della Camera Sandro Pertini, una di quelle persone per cui vale ancora la pena dirsi italiani, minaccia di rimandare le vacanze dei parlamentari qualora non fossero emersi i nomi dei politici ai quali i petrolieri avevano pagato le tangenti. Quando alcuni sospetti, che si riveleranno poi totalmente infondati, iniziano a circolare anche sul suo conto, il Corriere della sera, unico giornale che lo difende, gli chiede un intervista per fugare ogni sospetto. Questa la sua risposta: “Se proprio devo spiegare non parlerei mai con il Corriere. Mi avete difeso. Sarebbe disonesto parlare proprio con voi che siete dalla mia parte”.
Pertini è stato il miglior presidente della Repubblica della giovane democrazia.

In attesa di Silvio, ovviamente.

venerdì 22 gennaio 2010

La riabilitazione di Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico



Vi propongo una curiosa e simpatica proposta ideata, realizzata e gentilmente concessami da GioGio, riguardo al tema della riabilitazione dei grandi “statisti” della storia politica della nostra penisola. Associandomi all'auspicio di una immediata e tempestiva rivalutazione del Nerone “politico” e lasciando agli storici il giudizio del Nerone “storico” (lo so, non vuol dire assolutamente niente ma è l'espressione che oggi va per la maggiore), chiedo che per i magistrati che l'hanno condannato e per i comunisti che l'hanno ucciso, non valgano le agevolazioni previste dall'imminente legge sul processo breve (lo so, nessun magistrato l'ha mai condannato e nessun comunista l'ha mai ucciso...ma quant'è bello praticare l'arte del parlare a vanvera!).



La riabilitazione di Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico

Signori e signore, ragazzi e ragazze, infanti e infantesse sono qua per porre davanti a tutti voi una questione di coscienza.
Io GioGio D. Darkdancer penso che dopo 1942 anni (che se ci pensate è anche "l'anagramma" di 1492, anno della scoperta dell'America, quindi sicuramente un anniversario della libertà) sia giunto il momento di riguardare a quella fase politica tanto tormentata che ha visto la splendente ascesa e la forcaiola caduta di uno dei più grandi statisti della storia dell'umanità: NERONE CLAUDIO CESARE AUGUSTO GERMANICO.
Sono convinto che TUTTI VOI, una volta abbandonate le vostre ideologie e fatta vostra la più pura onestà intellettuale, non possiate che concordare con me che, a parte alcuni discutibili, marginali e sicuramente privati vizietti del nostro Nerone, quali:
- la piscina con i bambini piccoli dove lui nuotava felice mentre questi gli mordicchiavano il pene
- l'uccisione delle madre e della sorella
- il matrimonio con un ragazzetto evirato
- l'incendio di Roma (era casa sua dopotutto)
esso vada ricordato piuttosto nel suo ruolo di DIO/POLITICO/IMPERATORE senza uguali nella storia repubblicana (ma non era un imperatore? xD), alcune sue riforme (che io non ricordo ovviamente) cambiarono completamente il modo di intendere la politica, i diritti dell'uomo e del cittadino, il territorio, e i ludi gladiatori.
Quindi chiedo a tutti voi, con il cuore e le vostre coscienze in mano, di alzare un urlo di giustizia e verità per riabilitare la grande figura di NERONE CLAUDIO CESARE AUGUSTO GERMANICO, che la cronaca, i giornali di sinistra, i comunisti in generale e pure costruttori di sedie hanno contributo a distruggere nei millenni con un vero e proprio "killeraggio mediatico".

Sinceramente Vostro: D.

martedì 19 gennaio 2010

Scappato col.....Bettino

L'altra notte ho sognato Craxi vestito da principe azzurro. Veniva su uno splendido destriero bianco e mi portava via. Tutto!
(P. Rossi)


La buona notizia è che ci siamo lasciati alle spalle il regime. Quella cattiva è che stiamo facendo peggio.
Un sistema politica autoritario avrebbe, se non il buon gusto, quantomeno la prudenza di astenersi dal celebrare pubblicamente un corruttore, pluricondannato, sottrattosi dalle mani della giustizia e morto da latitante lontano dal paese che egli stesso, più di ogni alto, aveva contribuito ad affossare.
Ma, come ammonisce Woody Allen, si sa, “I politici hanno una loro etica. Tutta loro. Ed è una tacca più sotto di quella di un maniaco sessuale”. Dunque, tutti ad Hammamet, per rendere omaggio a Bettino Craxi con una due giorni di celebrazioni in terra tunisina, in occasione del decimo anniversario della sua morte. Tra le circa 600 persone che prendono parte alla trasferta, anche i ministri Sacconi, Frattini e Brunetta (proprio lui, quello che combatte i fannulloni e gli sprechi della pubblica amministrazione), nonché il capogruppo alla camera del Pdl, l'immancabile Fabrizio Cicchitto. La scena è tragicomica. Nel senso che, se non fosse tragica, sarebbe davvero divertente.
Questi quattro personaggi sono infatti esponenti di primo piano del principale partito di governo, il Pdl (ex Forza Italia), nato nel 1994 sull'onda di “Mani Pulite”, l'operazione giudiziaria che svelò il sistema di corruzione ed il diffuso clima di illegalità che permeò la politica italiana (almeno) a partire dagli anni '80. Tutto questo nonostante il leader indiscusso dello stesso partito, Silvio Berlusconi, fosse un grande amico del principale responsabile (o quantomeno di colui che ne beneficò maggiormente) di questa deriva di illegalità: Bettino Craxi. Tutto questo nonostante il partito in questione, Forza Italia (poi Pdl), annoverasse tra le sue fila esponenti di spicco di quella stessa classe politica che il suo leader condannava.
Poi, all'improvviso, la virata. Mani Pulite diventa una persecuzione giudiziaria attuata da una magistratura politicizzata ed eversiva. Craxi ed i suoi compagni di merenda diventano dei perseguitati politici. I latitanti diventano esuli. Le guardie diventano ladri. I ladri diventano statisti innovatori della politica italiana. Il sistema politico fondato sulla corruzione, sulle tangenti e sul finanziamento illecito diventa “una democrazia costosa che permise al paese di restare per 50 anni nel mondo libero” (Augusto Minzolini, direttore del tg1, 13/01/2010).
E così, gli ex compagni di partito dell'amico, poi nemico, poi di nuovo amico dell'attuale presidente del consiglio, chiudono il cerchio con il pellegrinaggio in terra tunisina, sacrificando all'altare del dio Bettino un bene ormai anacronistico per la rinnovata politica del bel paese: la dignità del popolo italiano (o quel che n'era rimasto).
Ci si aspetta almeno un sussulto da parte dell'opposizione, una manifestazione di dissenso, una qualche iniziativa a tutela del mantenimento (e non della revisione) della verità storica dei fatti. Poi ci si ricorda che l'opposizione è il PD: il partito che inserisce Craxi all'interno del Pantheon, l'insieme dei personaggi politici che rappresentano un punto di riferimento per il partito, di cui il partito si dichiara erede e da cui promette di trarre ispirazione. E si perde la speranza.
Ormai lobotomizzato da tutte queste celebrazioni, ipnotizzato dalle rivisitazioni delle tv di regime che esortano alle (ri)valutazioni del Craxi “uomo politico” (come se il buon Bettino, quando rubava, non fosse leader del partito socialista e, a tempo perso, capo del governo), propongo dunque un epitaffio commemorativo, per rendere il mio personale omaggio allo storico leader del garofano.

Benedetto Craxi detto Bettino (Milano, 24/02/1934 – Hammamet, 19/01/2000).
Condannato definitivamente a:
5 anni e 6 mesi per corruzione nel processo Eni-Sai.
4 anni e 6 mesi per finanziamento illecito per le mazzette della metropolitana milanese. Per quantificare il peso economico del sistema delle tangenti basti pensare che la linea 3 della metropolitana milanese costò 192 miliardi di lire al chilometro. Il metrò di Amburgo né costò 45 al chilometro. Meno di un quarto.
Per tutti gli altri processi in cui era imputato è stata pronunciata sentenza di estinzione del reato per morte del reo.
Fino a quel momento era stato condannato a:
4 anni e una multa di 20 miliardi di Lire in primo grado per il caso All Iberian (pena caduta in prescrizione nel 1999), ovvero per i 21 miliardi di lire di finanziamento illecito versati dalle società fininvest di Silvio Berlusconi su uno dei conti svizzeri di Bettino, come ringraziamento per la legge Mammì, frettolosamente varata dallo stesso governo Craxi.
5 anni e 5 mesi in primo grado per tangenti Enel (corruzione)
5 anni e 9 mesi in appello per il Conto Protezione (bancarotta fraudolenta del Banco Ambrosiano), sentenza poi annullata dalla Cassazione con rinvio il 15 Giugno 1999.
3 condanne a 3 anni in appello per la maxitangente Enimont (finanziamento illecito)
Due rinvii a giudizio per i fondi neri Montedison e per i fondi neri Eni (i processi non si celebrarono poichè Craxi morì).
Il pool di mani pulite accertò introiti per almeno 150 miliardi di lire sui 4 conti esteri a lui riconducibili e gestiti da alcuni prestanomi, tra i quali un compagno di scuola, Giorgio Tradati, ed un barista di Portofino, Maurizio Raggio. Quest'ultimo, quando Craxi, nel Dicembre del '92, ricevette il primo avviso di garanzia, venne incaricato dallo stesso leader socialista di recarsi in Svizzera e svuotare i conti su cui i giudici milanesi avrebbero potuto presto mettere le mani. Raggio eseguì alla lettera, prelevando circa 50 miliardi di lire e fuggendo in Messico (dove dichiarò di aver speso 15 dei 50 miliardi per le “spese di latitanza”). Vittima inconsapevole di prestanome “traditori”? Assolutamente no. La corte d'Appello di Milano precisò che “non ha alcun fondamento la linea difensiva incentrata sul presunto addebito a Craxi di responsabilità di ‘posizione’ per fatti da altri commessi, risultando dalle dichiarazioni di Tradati che egli si informava sempre dettagliatamente dello stato dei conti esteri e dei movimenti sugli stessi compiuti”. Queste le principali spese dei proventi illeciti dello statista innovatore della politica italiana.
Acquisto di un'appartamento a New York, due a Milano, uno a Madonna di Campiglio ed uno a La Thuile.
Acquisto di un aereo Sitation da 3 miliardi di lire.
“Donazione” mensile da 100 milioni di lire alla stazione televisiva Roma Cine Tivù, di cui la sua amante Anja Pieroni era direttrice generale.
Alla stessa Pieroni, regalò una casa ed un albergo (l'hotel Ivanhoe), entrambi a Roma, e le “pagò la servitù, l'autista e la segretaria”.
Prestito di 500 milioni al fratello Antonio, neo seguace del guru Sai Baba.
Affitto di una villa a Saint Tropez per l'austero esilio del figlio Bobo, desideroso di “sottrarsi al clima poco favorevole creatosi a Milano”, alla modica cifra di 80 milioni di lire, tutto compreso.
Tra la fine di Aprile e l'inizio di Maggio del 1994, appena prima che i Carabinieri lo arrestassero, fuggì in Francia, prima, ed in Tunisia, poi, sottraendosi alla giustizia dello stato che egli aveva (mal)rappresentato. Il 25 Luglio del 1995 fu dichiarato latitante dall'autorità giudiziaria italiana. Il 19 Gennaio 2001, sempre da latitante, morì ad Hammamet.
Lascia in eredità al popolo italiano il sistema “Tangentopoli”, uno dei più grandi scandali corruttivi mai verificatosi nella storia delle moderne democrazie, i cui costi economici furono stimati dall'economista liberale Mario Deaglio in circa 10 mila miliardi di lire all'anno. Questo sistema contribuì pesantemente all'impennata del debito pubblico, che, nel quadriennio di governo Craxi (1983-1987), passò dal 70% al 92% del PIL, per poi toccare quota 118% nel 1992, anno in cui l'inchiesta “Mani pulite” svelò la colossale rapina ai danni dei cittadini. Cittadini che, come se non bastasse, furono costretti a coprire di tasca loro le nefandezze del sistema (e lo saranno per molti anni ancora). Basti pensare che la finanziaria varata dal governo Amato a fine 1992, prevedeva 92 mila miliardi di lire di sole tasse ed il prelevamento forzato del 6 per mille sui conti correnti di ciascun cittadino italiano.

Se l'etica pubblica, la dignità nazionale, l'esercizio della (vera) memoria storica ed il rispetto del principio di legalità non sono valori abbastanza importanti da suscitare, ove violati, l'indignazione dei cittadini italiani, abbiano questi almeno la capacità di indignarsi di fronte a ciò che di più caro questo personaggio sottrasse loro per sempre:

il denaro.

martedì 12 gennaio 2010

Pessimismo democratico

"È stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora".
(W. Churchill)

L'altra sera è nata un'interessante discussione intorno al concetto di democrazia. Questo post cerca di rispondere ai diversi interrogativi emersi durante il dibattito e che, al di là delle opinioni e degli orientamenti personali, mi hanno offerto l'occasione di confrontarmi con altri punti di (s)vista e di trarre alcune preziose riflessioni riguardo alla desiderabilità della democrazia ed alla sua effettiva (o solo presunta?) capacità di promuovere il benessere e lo sviluppo sociale. A tal proposito colgo l'occasione per ringraziare Jacopo e gli altri ragazzi presenti (dai quali, ahimè, non ricordo il nome), auspicando il proseguimento della discussione su questo blog.

Letteralmente, democrazia significa “governo del popolo”: un sistema politico in cui i governanti coincidono con i governati sul modello della antica Atene, primo vero esempio storico di democrazia diretta. Nel corso della storia il concetto di democrazia ha però allargato i propri orizzonti. L'attuale concezione di democrazia è derivazione diretta delle rivoluzioni di fine '700: la rivoluzione francese, che ha posto l'accento sui diritti umani e politico-civili e la rivoluzione americana, che ha applicato per la prima volta il concetto di sovranità popolare. Benjamin Franklin, uno dei principali padri costituenti degli Stati Uniti d'America, oltre che governo del popolo, considera la democrazia come governo per il popolo e derivante dal popolo, introducendo così il concetto di sovranità popolare (governo derivante dal popolo, sua diretta emanazione) esercitato attraverso la delega di responsabilità ai cosiddetti “governanti” (tenuti a governare per il popolo).
Il concetto di sovranità popolare, centrale per comprendere la natura e l'essenza della democrazia, consente di confutare quel paradosso che rappresenta una delle più frequenti critiche rivolte alla democrazia: la possibilità che la maggioranza, democraticamente, voti per il passaggio ad un regime non democratico. L'errore fondamentale del paradosso risiede nella mancata considerazione di come una delle caratteristiche fondanti delle moderne democrazie sia la tutela delle minoranze. La sovranità è infatti prerogativa del popolo tutto, mai di una sua sola parte, neppure se maggioritaria. La volontà della maggioranza non può dunque prevaricare i diritti della minoranza: può decidere, ma solo nei limiti previsti dalla legge (e/o dalla costituzione). Nella nostra Costituzione, ad esempio, la natura repubblicana del nostro stato non è modificabile (art. 119). E' bene ricordarsi questo “dettaglio” quando sentiamo una (o più) parte politica arrogarsi il diritto di cambiare le regole del vivere civile, di sottrarsi alla legge, ecc.. in virtù di una (illegittima) legittimazione popolare.
La presenza e la salute dello stato di diritto è dunque, contemporaneamente, garanzia e requisito essenziale di ogni democrazia. Nello stesso tempo, però, riduce lo spettro di attività dei cittadini, in quanto distingue tra azioni lecite (concordi al diritto) ed illecite (contrarie al diritto). Dato che non esiste democrazia senza stato di diritto, ed è questa la seconda “accusa” alla democrazia, essa non costituirebbe un regime politico desiderabile in quanto, inevitabilmente, inciderebbe in modo restrittivo sulla libertà dei propri cittadini. E questo è un fatto vero. Ma, aggiungo io, inevitabile. Tralasciando le considerazioni filosofiche su cosa sia libertà e su quali elementi essa si fondi (libertà come anarchia o libertà come rispetto reciproco?), non (solo) una pessimistica concezione antropologica, ma la storia, dimostra e testimonia l'indole tutt'altro che pacifica e coscienziosa dell'uomo. Il ritorno allo stato di natura, ad una società senza stato, si risolverebbe in un uomo contro uomo, nell' “homo homini lupus” (l'uomo è lupo per l'uomo) ripreso nel pensiero di Thomas Hobbes. Rinunciare ad una parte delle proprie libertà in favore di uno stato che, contemporaneamente, rappresenti e faccia rispettare la legge, appare dunque, a mio modo di vedere, una rinuncia essenziale in quanto finalizzata ad evitare il caos sociale e l'inevitabile (anche qui, a mio modo di vedere) uomo contro uomo che caratterizzerebbe una società senza stato.
Stabilito questo, non esiste un sistema politico “ideale” in assoluto: il grado di desiderabilità e virtù di un sistema politica dipenderà direttamente dai singoli e soggettivi orientamenti politico-filosofici individuali. Chi considera come valori fondanti l'ordine sociale, la disciplina, ecc.. propenderà per regimi autoritari classici; chi considera come valore fondante l'uguaglianza sostanziale, la solidarietà sociale, ecc.. propenderà per sistemi collettivistici di tipo comunistico.
La forza e la grandezza della democrazia, o meglio di come la democrazia ideale dovrebbe essere, consiste, a mio parere, nel lasciare l'uomo completamente libero nella sua autodeterminazione economica, sociale e politica (la nostra costituzione recita, all'articolo 3, “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine sociale ed economico e sociale che[..]impediscono il pieno sviluppo della persona umana[..]).
Consapevole della diversità (e legittimità) dei singoli orientamenti individuali (chi, ad esempio, considera l'uguaglianza sostanziale un valore più importante dell'autodeterminazione non converrà con me sul punto precedente), mi limito a rispondere ad un paio di punti emersi durante il dibattito.
1) Un'uguaglianza sostanziale imposta, artificiale, non è meno discriminatoria di quanto non sia la disuguaglianza sociale nelle società capitalistiche. Cambiano solo i soggetti interessati. Nelle società capitalistiche, ai “deboli” sarò impedito il processo di ascesa sociale; nelle società fondate sull'uguaglianza sostanziale, a tutti i cittadini sarà impedita qualsiasi forma di ascesa sociale. Sarà garantita la libertà dal bisogno ma sarà annullata la libertà di autodeterminazione, soprattutto economica. Anche qui, questione di gusti.
2) La “dittatura del proletariato” auspicata da Marx, non assomiglia al “governo del popolo”a cui fanno riferimento i sistemi democratici. Sorvolando sulle differenze tra i termini dittatura e governo, che talvolta possono sovrapporsi, esiste una differenza sostanziale: nel primo caso si fa esplicito riferimento alla sopraffazione di un parte del popolo (il proletariato) ai danni di un'altra parte del popolo (la borghesia). Nel secondo caso si fa invece riferimento alla totalità dei cittadini (il popolo), depositari della sovranità e che dunque, almeno formalmente, vengono considerati come soggetti politicamente paritari.

Anche a me piacerebbe vivere in una società eguale, dove “ognuno dà secondo le proprie capacità e riceve secondo i propri bisogni”.

Ma sono pessimista. E, dunque, democratico.

martedì 5 gennaio 2010

Inciuci di fine millennio

Sinistra che vai, amici (ed amore) che trovi










"Il miglior modo per eliminare i propri nemici è farseli amici" (A. Lincoln)

Non credete a quello che vi dicono i giornali ed i giornalisti fomentatori di odio: il partito dell'amore non l'ha inventato Berlusconi. L'ha inventato la sinistra.
Prima, nella sua più autentica manifestazione, con Craxi ed il suo PSI (lascio a voi lo sviluppo dell'acronimo). Poi, in una sua riproposizione malriuscita, con le Margherite, gli Ulivi e gli Arcobaleni di turno. Ma andiamo con ordine.
Nel 1984 Berlusconi è ancora un imprenditore, intento, come spesso gli accade, ad aggirare la legge. La legislatura di allora non permette infatti alle sue tre televisioni (Canale5, Italia1 e Rete4) di trasmettere contemporaneamente su scala nazionale. All'inizio di Ottobre, alcuni magistrati particolarmente attenti scoprono la violazione ed impongono l'interruzione delle trasmissioni dei 3 canali nelle zone di loro competenza giuridica. Il Cavaliere non si scompone: dietro consiglio di un suo avvocato, si adopera per aggirare il fastidioso ostacolo legislativo, sfruttando un sistema di videocassette che, trasmesse in contemporanea sulle emittenti locali dell'intera penisola, consentono di bypassare il sistema dei “ponti radio”, espressamente vietato dalla legge. Nasce la “tecnica del pizzone” o “syndacation”. Traduzione: una scappatoia bella e buona.
Per stabilizzare la situazione e regolarizzare a tutti gli effetti il privilegio delle reti del Biscione, l'allora presidente del consiglio Craxi, amico fraterno del Cavaliere, si precipita da Londra, dove era in visita di stato, per varare il cosiddetto “primo decreto Berlusconi”. Una bel termine tecnico-specialistico per non destare l'attenzione (e lo sdegno) dell'opinione pubblica ed il gioco è fatto: la cosiddetta interconnessione funzionale è finalmente legalizzata.
I consensi piovono da destra e da sinistra. Indimenticabile la posizione dell'allora responsabile dell'informazione del Partito Comunista, Walter Veltroni: “Non ci si deve rallegrare che emittenti televisive vengano oscurate [..] non è con il black out che si risolvono i problemi del mondo televisivo”.
Il decreto, bocciato per incostituzionalità il 28 Novembre, viene riproposto il 6 Dicembre, convertito in legge il 4 Febbraio 1985 e rinnovato per 2 volte, la seconda delle quali a tempo indeterminato. Il PC ha infatti seppellito l'ascia di guerra in cambio della direzione del tg3 e della presidenza di rai3. Nei salotti della politica questa scelta viene accolta (e dipinta) come un indispensabile atto di realpolitik. Al bar sport, in modo tanto pittoresco quanto efficace, la si descrive per quello che è: la carota dopo il bastone.
Nel 1990 la legge Mammì (governo Andreotti), concede ufficialmente a Berlusconi le tre reti nazionali di cui egli, di fatto, è già proprietario: il sistema di videocassette può essere finalmente accantonato. La strada maestra delle trasmissione analogica è definitivamente intrapresa.
Così il figlio politico di Craxi, forte di quest'ultimo gradito regalo della prima repubblica, nella primavera del 1994 riesce nella sensazionale impresa di vincere le elezioni a soli 3 mesi dalla sua discesa in campo e, cosa ancor più incredibile, di presentarsi come il nuovo che avanza, come l'erede politico e morale di quelle inchieste giudiziarie (“mani pulite” fra tutte) che hanno decimato la stessa classe politica che lo aveva tanto amato (ed aiutato).
L'idillio del Cavaliere sembra però svanire appena pochi mesi dopo. Mentre la Lega di Bossi fa cadere il governo da lui presieduto, le inchieste giudiziarie che lo riguardano si fanno sempre più minacciose. Come se non bastasse, in seguito alla sentenza della Corte Costituzionale che impone la riduzione a due delle reti Mediaset a diffusione nazionale, vengono indetti 4 referendum che ridiscutono quella legge Mammì a lui tanto cara. Ma si sa: un vero amico si vede nel momento del bisogno. Ed il centrosinistra, da vero amico, non si tira indietro, facendo fallire i referendum e promettendo, come ricorda l'attuale esponente PD Violante, “che non sarebbero state toccate le sue televisioni [..] del resto durante i governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte”. Più amici di così...
Nel '96 Berlusconi è di nuovo alle corde. Prodi vince le elezioni con un programma battagliero ed intransigente sul fronte del conflitto di interessi e delle leggi anti-trust. Ma ecco che D'Alema, con cui il Cavaliere si sente ogni giorno, lo rassicura subito: “Non abbiate paura[..]troveremo intese. Mediaset è un grande patrimonio per il paese”. Detto, fatto. In Luglio la legge Maccanico manda in soffitta la sentenza della corte costituzionale e rinnova una proroga illimitata per le reti Mediaset.
Il 22 Gennaio 1997 nasce la commissione bicamerale, presieduta da D'Alema (votato anche da Forza Italia), con lo scopo di attuare le tanto agognate “riforme condivise” (vi ricordano qualcosa?). Risultato: in due anni di bicamerale nessuna legge sul conflitto di interessi, nemmeno l'ombra di una legge anti-trust ed il respingimento della richiesta di arresto di Previti (avvocato del Cavaliere) e Dell'Utri (co-fondatore di Forza Italia e noto procacciatore di stallieri, condannato, tra le altre cose, per concorso esterno in associazione mafiosa con sentenza di primo grado).
Il resto è storia recente: la coalizione di centro-sinistra (un'accozzaglia di partiti pescati a strascico all'interno dello spazio politico compreso tra il centro e la sinistra) guidata da Prodi a partire dal 2006, riesce nell'incredibile impresa di riesumare per la 3° volta il Cavaliere, che, nel 2008, ritorna al governo senza che alcuna legge sul conflitto di interessi sia stata varata.
Anche nell'attuale legislatura i segnali di amore non mancano. Oltre ai già citati inciuci, da ricordare le amorevolissime assenze dei deputati pidini (59 assenti) in occasione della votazione sulla pregiudiziale di incostituzionalità dello scudo fiscale lo scorso 29 Settembre, che, se approvata, avrebbe consentito di depositare quella legge nel luogo ad essa più consono: il cestino.
Assenti, tra gli altri, Franceschini, Bersani e D'Alema (altro che partito diviso..). Memorabile il commento di quest'ultimo: “Avevo una manifestazione e non mi era stato spiegato bene che era un voto importante”.

Del resto, si sa: al cuor non si comanda.