domenica 30 gennaio 2011

(Pe)Stato di diritto

Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni
(F.M. Dostoevskij)

*Il pezzo lo trovate anche su www.virgolenellevirgole.it, portale sulla libera (e giovane!) informazione. Visitatelo, merita!!

Quattro storie. Diverse per circostanze e protagonisti, ma drammaticamente simili per i loro tragici epiloghi.
Quattro storie in cui il dramma umano degli involontari protagonisti, le violenze e gli abusi delle forze dell’ordine, le speculazioni delle forze politiche ed il troppo frequente silenzio dei mezzi di informazioni si mischiano in un groviglio inestricabile, che rende spesso impossibile l’accertamento della verità. Quattro storie che, comunque la si pensi, vanno ricordate e approfondite, insieme alle altre decine di storie che, ogni anno, si ripetono tristemente nelle carceri e nelle Caserme di tutta Italia.
Per non dimenticarli, per non dimenticare.


La storia di Giuseppe
Giuseppe, quella sera, non sapeva di andare a morire. Era stata una bella giornata. La partita dell’Italia, una serata in compagnia, le risate. Qualche bicchiere di troppo. E poi quella frase, nel cuore della notte: “Uva, è proprio te che cercavo”.
L’incubo di Giuseppe Uva, 43enne artigiano varesino, inizia così.
Sono le 3 di notte del 14 giugno 2008 quando, insieme all’amico Alberto, una pattuglia di Carabinieri lo ferma nel centro di Varese. Euforico, stava transennando una via, nel bizzarro tentativo di deviarne il traffico. Portato in caserma, rimane per ore in balia di una decina di uomini tra poliziotti e Carabinieri.
Le urla strazianti, le grida di dolore. Poi, il silenzio.
L’amico Alberto, rimasto nella sala d’attesa della caserma, chiama un’ambulanza per chiedere aiuto. Al telefono con la centralinista, i Carabinieri minimizzano: “Sono solo due ubriachi, adesso gli togliamo i cellulari”. Alle 5 del mattino, però, l’ambulanza arriva, chiamata dalle stesse forze dell’ordine.
Giuseppe muore alle 10.30 di quella mattina nell’ospedale “Di Circolo” di Varese. La versione ufficiale parla di una combinazione tra farmaci e alcool letale per il corpo di Giuseppe.
Corpo che la sorella Lucia, quella mattina, stenta però a riconoscere: le costole che sporgono in modo innaturale, la pelle livida di botte, le gambe sfregiate da numerose escoriazioni, la mano destra rigonfia, la frattura alla colonna vertebrale, le parti intime insanguinate.
Corpo di un uomo che, due anni e mezzo dopo, non ha ancora avuto giustizia.

La storia di Stefano
Chissà cosa pensava Stefano, quando i Carabinieri lo fermarono nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. Addosso aveva 20 grammi di hashish, una piccola quantità di cocaina e una pasticca di Rivotril, che utilizzava per combattere la sua battaglia quotidiana contro l’epilessia. Stefano era tranquillo: sapeva di non essere un narcotrafficante e sapeva che, a casa sua, i Carabinieri non avrebbero trovato nulla.
Eppure, alle 3 di notte, dichiara di sentirsi male. Quando, alle 5 di mattina, arriva in ospedale, ha gli occhi tumefatti. Che volete, “aveva dormito poco e le camere di sicurezza non sono certo alberghi a 5 stelle”, dichiara il maggiore dei Carabinieri Paolo Unali. Ma il referto dei medici dell’ospedale Fatebenefratelli non parla di occhiaie: Stefano presenta ecchimosi su tutto il corpo, lesioni oculari e lesioni alla schiena, due vertebre spezzate.
Quando il padre di Stefano, la mattina stessa, lo incrocia in Tribunale durante il processo per direttissima, legge in quegli occhi lividi di dolore un disperato grido d’aiuto. Sarà l’ultima volta che vedrà suo figlio.
Tradotto nel carcere di Regina Coeli, Stefano Cucchi muore in solitudine all’alba del 22 ottobre 2009 nel reparto detentivo dell’Ospedale Pertini di Roma.
Pesava 37 chili.

In barba al ministro della Giustizia (della Giustizia) Angelino Alfano, che ha riportato in Parlamento (in Parlamento) la versione della tragica “caduta dalle scale”, il Giudice per l’udienza preliminare di Roma ha rinviato a giudizio 12 persone tra guardie carcerarie, medici e infermieri, condannando in primo grado a 2 anni Claudio Marchiando, direttore dell’ufficio detenuti del carcere di Regina Coeli.


La storia di Federico
Per Federico, quella era la sera del concerto reggae al “Link” di Bologna. Una serata cominciata bene – gli amici e l’emozione per il concerto -, degenerata in qualche eccesso – la delusione per l’annullamento del concerto sfogata nell’alcool e nell’ecstasy– e finita in tragedia.
Sono le 5.47 del 25 settembre 2005 quando una pattuglia della Polizia di Stato incrocia il 18enne Federico Aldrovandi per le vie di Ferrara. C’è una colluttazione. Pochi minuti dopo arriva un’ambulanza: il corpo del giovane è riverso a terra in una pozza di sangue. Testicoli schiacciati, ecchimosi ed ematomi diffusi, una lesione alla testa in sede occipitale, una profonda ferita su una natica e graffi sul viso. Due manganelli sfondati.
L’abbiamo bastonato di brutto…è mezzo morto", si fa scappare il capopattuglia Enzo Pontani in un dialogo con la centrale.
Alle 6.18 Federico muore.
Pochi minuti dopo, come testimonia questo video (minuto 2.33), gli agenti ridacchiano a pochi passi dal suo corpo esanime.

La notizia passa sotto silenzio: qualche trafiletto sui giornali locali e poco più. Nel gennaio 2006 la madre di Federico apre un Blog, attraverso il quale intraprende la sua personale battaglia di giustizia e verità nel nome del figlio. Un figlio prima barbaramente ucciso, poi marchiato con l’etichetta di “drogato”.
Nel luglio 2009 i quattro agenti di polizia vengono condannati in primo grado a 3 anni e sei mesi di reclusione per eccesso colposo in omicidio colposo.
Sono ancora tutti in servizio.


La storia di Aldo (e il futuro di Rudra)
Rudra si alza presto al mattino. Deve andare a scuola, studiare e costruirsi un futuro.
Rudra è rimasto solo in un casolare sulle colline dell’Appennino umbro-marchigiano. Cerca di aiutarlo, tra mille difficoltà, uno zio giunto un anno e mezzo fa dalla Germani. Eh già, perché Rudra non ha più i genitori.
Inizia tutto una mattina d’ottobre, quando gli agenti di Polizia arrestano il padre Aldo e la madre Roberta. Nel campo antistante al casolare i poliziotti avevano trovato delle piantine di canapa indiana. Aldo e Roberta non erano narcotrafficanti; semplicemente, non si arrendevano all’idea di doversi piegare alle prescrizioni di leggi che ritenevano ipocrite ed agli interessi di organizzazioni criminali che non volevano in alcun modo foraggiare.
Dopo una notte trascorsa in carcere, Roberta rivede il marito. Per l’ultima volta.
La mattina dopo – è il 14 ottobre del 2007 – Aldo Bianzino viene trovato morto nella sua cella d’isolamento. Quattro ematomi celebrali, milza e fegato spappolati, due costole fratturate: secondo il referto medico del personale del carcere Aldo sarebbe morto a causa di un infarto.
Prima di morire – nel giugno 2009, uccisa da un tumore e dilaniata da un dolore insopportabile –Roberta lancia una sottoscrizione per il figlio. E’ solo grazie a quest’ultimo, disperato gesto e alla generosa mobilitazione della rete e dei Radicali che Rudra – quando, tra pochi mesi, compirà 18 anni – potrà disporre di una cifra di circa 70mila euro.


Quant’è lontana, Arcore.

mercoledì 26 gennaio 2011

Video...amatore!


Articolo scritto per gli amici di Pane&Politica (www.panepolitica.it), portale dedicato alla comunicazione ed al marketing politico. Fateci un salto, merita davvero!



In principio fu per annunciare la discesa in campo”: contro “il cartello delle sinistre”, i “nostalgici del comunismo” e i corrotti della Prima Repubblica. Oggi, 17 anni dopo, il genere del videomessaggio viene rispolverato da Berlusconi per lanciare un feroce j’accuse contro i magistrati “politicizzati” e i pm “persecutori”.

Qualche rughe in più, viso più rotondo – ma stessa identica capigliatura rispetto a quella del 1994, fanno notare i maligni – il faccione del Cavaliere è infatti riapparso nelle case degli italiani per ben due volte nel giro di pochi giorni.
Per uscire dall’angolo del ring a cui parte della stampa sembrava averlo inchiodato nei giorni immediatamente successivi all’esplosione del Caso Ruby-parte seconda, il Cavaliere ha infatti riabbracciato il genere comunicativo che, diciassette anni fa, gli spalancò le porte della politica italiana. Era l’ormai lontano gennaio del ’94 quando l’allora filiforme imprenditore brianzolo annunciava la sua candidatura alla guida del paese attraverso un monologo di una manciata di minuti in cui, da un lato, spiegava le ragioni della sua scelta, dall’altro, cercava di convincere gli elettori sull’opportunità di votarlo.

Due situazioni apparentemente slegate tra loro che il filo comune del videomessaggio sembra invece riavvicinare, evidenziando lo stesso, preciso obiettivo che sta alla base di queste scelta comunicativa: quello che i sociologi della comunicazione americani chiamano “going public”. Il termine individua l’ approccio comunicativo di tipo diretto ed im-mediato – ovvero privo dell’intermediazione dei media – tipico della comunicazione politica presidenziale made in USA. Un approccio che cerca di privare i mezzi di informazione del loro tradizionale ruolo di ponte comunicativo tra il politico e i cittadini, favorendo così la comunicazione diretta – anche se unidirezionale – tra questi due attori.

Ciò che cambia, e di molto, sono le motivazioni alla base di questa stessa scelta strategica.
Se nel ’94 il principale obiettivo del videomessaggio di Berlusconi era quello di far conoscere agli elettori il Silvio “politico” e di instaurare con essi un rapporto all’insegna della familiarità e dell’empatia, le ragioni della scelta questi giorni solo molto diverse.

In primo luogo c’è la volontà/esigenza di evitare il contraddittorio. Troppo delicata la questione, troppe e troppo imbarazzanti le rivelazioni trapelate sui giornali per risponderne dettagliatamente in pubblico – magari in un faccia a faccia televisivo – senza correre il rischio di uscirne con le ossa rotte. Il videomessaggio, invece, dà pieno spazio alle qualità retoriche e comunicative di Berlusconi e gli consente di tenere ben saldo in mano il timone della propria strategia difensiva. Che infatti – ed è questo la seconda ragione alla base della scelta – vira immediatamente sulla tesi del complotto dei Pm e della magistratura inquisitoria, consentendo a Berlusconi di spostare i termini del dibattito dal mare mosso delle inquietanti intercettazioni, alle acque più calme e favorevoli della tesi della “volontà persecutoria” dei pm.
Se digerita positivamente dall’opinione pubblica e dai suoi elettori, la tesi persecutoria potrebbe poi consentire al Cavaliere – e in questo caso saremmo di fronte all’ennesimo colpo da fuoriclasse da parte di Berlusconi – di rilanciare la posta nel tavolo da gioco della politica italiana.
Da un lato, perché fornirebbe ottimi argomenti alla tanto invocata “riforma della giustizia”, che consentirebbe al Cavaliere di mettersi al riparo da qualsiasi imprevisto giudiziario.
Dall’altro, perché permetterebbe a Berlusconi di polarizzare l’elettorato, impostando il dibattito della sempre più probabile campagna elettorale all’interno di una cornice di significato a lui favorevole: quella dell’attacco congiunto che l’asse procure-Fini-Casini-Sinistra (cit. “Il Giornale”) starebbe mettendo in campo per spodestarlo.

Il buon esito della scelta strategica di Berlusconi dipenderà probabilmente da due fattori.
Il primo riguarda il grado di efficacia con cui il fuoco mediatico “amico” saprà tranquillizzare l’elettorato di centro destra (soprattutto quello cattolico), accreditando presso l’opinione pubblica la tesi complottistica ed isolando/dividendo il fronte antiberlusconiano.
Il secondo riguarda la tenuta dell’alleanza con la Lega, i cui elettori sono sempre più irritati dall’immobilismo politico del governo e dal continuo procrastinarsi dell’approvazione del divin-federalismo.

La partita, dunque, è appena cominciata.

domenica 23 gennaio 2011

I cannoli son finiti!

Quando Cuffaro sarà assolto da tutte le accuse, tanti sciacalli di queste ore saranno in prima fila a chiedergli scusa
(Pierferdinando Casini, 26 gennaio 2008)

*Articolo pubblicato anche da www.virgolenellevirgole.it, portale sulla libera (e giovane!) informazione. Visitatelo!!

Fino a pochi giorni fa si aggirava con il suo simpatico faccione tra i corridoi di Palazzo Madama, sede del Senato. Da ieri la sua dimora è una cella al pianoterra del carcere di Rebibbia, reparto G12, Roma. Italia.

Chissà se Salvatore “Totò” Cuffaro da Raffadali (Agrigento), ex presidente della Regione Sicilia, ex vicesegretario nazionale dell’Udc ed ex (fino a ieri, per la precisione) senatore della Repubblica italiana, si aspettava un destino così inglorioso quando il 26 settembre del 1991, con proverbiale tempismo, esordiva sugli schermi televisivi nazionali sudato e schiumante di rabbia scagliandosi ferocemente contro il giudice Giovanni Falcone, pochi mesi prima che un attentato mafioso lo facesse saltare per aria.
Forte di quella mirabolante performance, il giovane Cuffaro brucia le tappe: in pochi anni passa da promettente deputato dell’assemblea regionale siciliana (in quota DC) a Presidente della Regione Sicilia. Non ancora eletto governatore dell’isola – siamo nella primavere del 2001 – Cuffario si mette all’opera. Per aiutare propri cittadini? No, per favorire la mafia.
Questo il verdetto dei giudici della seconda sezione penale della Corte di Cassazione che lo hanno condannato a 7 anni di reclusione per favoreggiamento a Cosa Nostra.

I fatti dicono che, nel 2001, Cuffaro viene a sapere di una microspia installata dai Carabinieri del ROS (Reparto Operativo Speciale) nell’abitazione palermitana di Giuseppe Guttadauro, boss mafioso del mandamento di Brancaccio. Cuffaro, forse preoccupato per le sorti del boss e per i colloqui compromettenti che si svolgevano nell’abitazione, informa della notizia Mimmo Miceli, un altro politico siciliano che, a sua volta, informa Guttadauro. Il gioco è fatto: il 15 giugno 2001 si interrompono le conversazioni “compromettenti” che il boss intratteneva nella sua abitazione. Tre giorni dopo la cimice viene individuata e distrutta, mandando in frantumi una promettente indagine sui rapporti e le connivenze politico-mafiose in Sicilia.
Ma l’attivismo di Totò “Vasa-vasa” (ovvero “bacia-bacia”, soprannome che deriva dalla sua proverbiale propensione ad elargire baci ai suoi interlocutori) non si ferma qui.
Celebre è l’incontro tra lui e Michele Aiello – imprenditore ritenuto molto vicino a Provenzano – avvenuto nel retrobottega di un negozio di articoli sportivi di Bagheria, durante il quale Cuffaro avrebbe concordato il tariffario regionale dei rimborsi alla clinica “Villa Teresa”, di cui Aiello era proprietario.
Nemmeno le frequentazioni “pericolose” di Cuffaro si fermano qui. Amico e testimone di nozze (insieme a Clemente Mastella, ex ministro della giustizia) di Francesco Campanella, il pentito che procurò a Provenzano il passaporto falso che consentì al boss dei boss di espatriare in Francia, Cuffaro frequentava anche Vincenzo Greco e Salvatore Aragona, entrambi condannati per mafia. Ma guai a farglielo notare: “che devo fare – obietta stupito Totò – marginalizzarli? Io sono per ascoltare tutti, parlare con tutti”. Ci mancherebbe.

E infatti, né le prime indagini, né il rinvio a giudizio, né tantomeno la condanna in primo grado per favoreggiamento “semplice” a un singolo mafioso, interrompono il climax politico di Totò.
Certo, i cannoli con cui, nel 2008, festeggia la condanna in primo grado (anzi no: “li stavo solo spostando!”, si difende Cuffaro), lo obbligano a lasciare la poltrona di Presidente della Regione appena riconfermata alle elezioni. Ma gli valgono un bel seggio in parlamento. A garantirglielo, ironia della sorte, la legge elettorale a firma leghista e la ferma volontà di Pierferdinando Casini, che, definendo Totò un “perseguitato politico” e violando la promessa di non candidare alle elezioni politiche chiunque avesse subito condanne, gli porge in dono una poltrona da Senatore.
Nel gennaio 2010, però, le cose si complicano: la Corte d’Appello lo condanna a 7 anni per favoreggiamento, aggravato dall’aver favorito Cosa Nostra, prospettandogli la concreta ipotesi del carcere. Ieri la sentenza definitiva e l’ingresso in carcere.

Cuffaro lascia in eredità un posto da Presidente della Regione Sicilia, oggi occupato da Raffaele Lombardo, già arrestato un paio di volte e tutt’ora sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa, e un seggio da Senatore della Repubblica, già assegnato a Maria Pia Castiglione. La quale, unendosi alla solidarietà bipartisan (nel PD si segnala il dispiacere di Follini) tributata dalla politica al povero Totò, ha subito precisato: “per me resta un amico dotato di grande umanità, disponibilità e generosità. Tutti gli dobbiamo tanto”.



Tutti chi?

giovedì 20 gennaio 2011

Mi consenta, Presidente

Lettera al Presidente del Consiglio




Signor Presidente del Consiglio, Onorevole Silvio Berlusconi.

Nonostante la quantità e la gravità delle accuse che le sono state rivolte – prostituzione minorile e concussione – Lei non ha ritenuto i suoi concittadini (nonché, fino a prova contraria, suoi datori di lavoro) degni di una risposta sincera e leale.

Domenica e mercoledì scorsi, riproponende il triste genere del videomessaggio senza contraddittorio intriso della solita insopportabile, nauseante retorica, è scappato ancora una volta dalle Sue responsabilità e dall'obbligo politico-morale di far luce sulle molteplici ombre che avvolgono il suo più e meno recente passato. Confermando – una volta di più – il più volgare disprezzo per le istituzioni di quello stato che Lei dovrebbe rappresentare e la più infima considerazione per quei cittadini che Lei dice di amare.

Ha creduto di potersela cavare – e, magari, se la caverà ancora una volta – grazie al solito, surreale, monologo autocelebrativo, dimostrando la viltà di chi scappa dalle proprie responsabilità, la sfacciataggine di chi è consapevole del proprio esorbitante potere, la spregiudicatezza di chi non ha più nulla da perdere.

Quelle che seguono sono le semplici e puntuali obiezioni con le quali un sistema dell’informazione libero e indipendente L’avrebbe inchiodata alle Sue responsabilità smontando le giustificazioni pressappochiste contenute nel Suo videomessaggio, se solo i tentacoli del suo potere non ne avessero, da anni, neutralizzato buona parte dell’azione.

Questo lo sdegno spontaneo e genuino, razionale ed argomentato, con cui i cittadini L’avrebbero costretta a dimettersi, se solo i modelli (in)culturali vomitati da oltre vent’anni dal suo impero mediatico non ne avessero plasmato le menti e addormentato le coscienze.

Vediamolo, allora, questo sdegno. Punto per punto, minuto per minuto, fotogramma per fotogramma.


Minuto 0.30: I pm hanno dimostrato una “volontà chiaramente persecutoria nei miei confronti”: forse Lei dimentica chi in Italia vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Volontà persecutoria o meno, inoltre, il problema è di chi commette i reati più che di chi li persegue.

Minuto 1.16: “Ai Pm non è piaciuta nemmeno la decisione della Corte Costituzionale al punto che, il giorno successivo alla sentenza della Consulta, con una tempistica perfetta, hanno reso pubbliche le loro indagini”: la Sua iscrizione nel registro degli indagati è avvenuta il 21 dicembre 2010 e Le è stata notificata il giorno dopo la sentenza della Consulta solamente per evitare di influenzarne le decisioni, cosa che, invece, Lei ha fatto periodicamente. Come in occasione dell'incontro che, a poche settimane dal pronunciamento della Corte Costituzionale sul Lodo Alfano, lei ebbe con i due giudici costituzionali Luigi Mazzella e Paolo Napolitano. Che, puntualmente, votarono a favore del Lodo.

Minuto 1.25: “E’ inaccettabile che, trascorsi 15 giorni, (i Pm) non abbiano mandato gli atti di queste indagini al Tribunale dei Ministri come prescrive la legge”: Presidente, il tribunale dei ministri giudica i reati commessi dai componenti del Consiglio dei Ministri nell’esercizio delle loro funzioni. Impartire ordini alle forze di polizia non spetta al Presidente del Consiglio ma, semmai, al ministro dell’interno. Telefonare in questura e, tramite la menzogna, indurre i funzionari di polizia ad accorciare le pratiche previste per la sistemazione di una ladra minorenne senza documenti, per fortuna, non spetta a nessuno. Almeno per ora.

Minuto 2.1: “Il dirigente della Polizia che sarebbe stato concusso nega di esserlo mai stato e la persona minorenne nega di aver mai avuto avances né tantomeno rapporti sessuali”: entrambi possono avere buone ragioni per negare. Il primo per paura di possibili ritorsioni o per fuggire dalle proprie eventuali responsabilità (aver agito contro le procedure previste dalla legge). La seconda per preservare la propria onorabilità o, come emerge dalle intercettazioni, per giocare al rialzo con Lei nella partita del ricatto. Fino a 5 milioni di euro.

Minuto 2.40: “Quando posso cerco di aiutare chi ha bisogno”: Lei, con i suoi soldi – la provenienza di buona parte dei quali non ha mai voluto svelare, avvalendosi della facoltà di non rispondere di fronte ai magistrati – può fare ciò che vuole, purchè entro ai limiti della legge (che, in questo come in molti altri casi, sembrano essere stati travalicati). Ma almeno ci risparmi – lo faccia per il rispetto che si deve alle migliaia di persone che quell’aiuto meriterebbero per davvero – la solita barzelletta del filantropo premuroso. O vuole davvero far passare come pura casualità il fatto che le persone da Lei “aiutate” portassero tutte la 4° di reggiseno, superassero tutte il metro e ottanta e fossero tutte molto disinibite? Cornuti si, mazziati no, per favore.

Minuto 3.12: “Di persone ne ho aiutate a centinaia. Mai in cambio di qualcosa, se non della gratitudine, dell'amicizia e dell'affetto”: e i 420 milioni sborsati dalle casse Fininvest per comprare il giudice Vittorio Metta e con lui la sentenza che Le garantiva, fra le altre, la Mondadori, l’Espresso, Panorama e la Repubblica? E Massimo Berruti, ufficiale della Guardia di Finanza che chiuse un occhio sulle ispezioni alla Sua Edilnord e fu promosso a uomo Fininvest e, poi, a parlamentare del Suo partito? E i 21 miliardi di finanziamento illecito a Craxi per mantenere inatto il suo impero televisivo? E i 600mila euro all’avvocato Mills per indurlo a mentire in due processi contro di Lei? Erano tutti atti di carità verso persone bisognose?

Minuto 4.35: "Lele Mora ha svolto un eccellente lavoro a mediaset…sono orgoglioso di averlo aiutato”: il fatto che Lei sia orgoglioso di aver aiutato Lele Mora, personaggio che all’interno del suo repertorio, oltre a un busto di Mussolini che bacia “tutti i giorni”, vanta una condanna milionaria per evasione fiscale e una dichiarazione pendente per bancarotta, non depone certo a suo favore. D’altra parte “chi è senza peccato scagli la prima pietra”, vero Presidente?

Minuto 6.20: “E’ contro la legge questa intromissione nella vita privata delle persone…quello che i cittadini di una libera democrazia fanno nelle mura domestiche riguarda solo loro.”: con questa affermazione Lei infama e minaccia le fondamenta del nostro già traballante stato di diritto. Ciò che fanno i cittadini tra le mura domestiche è perseguibile come tutti gli altri reati. Dispiacerà, fra gli altri, a stupratori, pedofili e assassini, ma rimane così. Per fortuna.

Minuto 7.45: “Non è un Paese libero quello in cui, quando si alza il telefono, non si è sicuri dell’inviolabilità delle proprie conversazioni”: no, signor Presidente. Ben vengano le intercettazioni per chi – a differenza sua e di buona parte della nostra classe dirigente – non ha nulla da nascondere. Ciò che non è accettabile in uno stato libero e – se mi consente – non è degno di un paese civile e democratico, è che Lei, Presidente del Consiglio, da più di 15 anni fugga davanti alla legge e davanti alle gravissime accuse che le vengono rivolte rivolte dalla magistratura attraverso un uso personale del parlamento, istituzione che Lei ha prima degradato, con leggi vergognose ed incostituzionali, e poi umiliato, riducendola – anche grazie all’invasione di riciclati e portaborse da Lei favorita – ad un semplice ingranaggio nella filiera della Sua impunità.

Minuto 8.20: " Non è un Paese libero quello in cui una casta di privilegiati può commettere ogni abuso a danno di altri cittadini senza mai doverne rendere conto”.
Ecco, Presidente: su questo punto mi trova assolutamente concorde.



Dunque, si dimetta.

domenica 16 gennaio 2011

Indignatevi! Ma anche no

Gli italiani hanno solo due cose per la testa: l'altra sono gli spaghetti
(C. Deneuve)



Strano popolo, gli italiani. Sono in grado di sopportare e supportare di tutto, ma quando si entra in camera da letto (o in cucina) diventano inflessibili.


Si indignano, dunque, ma non con la purezza d’animo propugnata da Stéphane Hessel, 93enne eroe della Resistenza francese, nel pamphlet di 32 pagine “Indignez-vous!” che ha già raggiunto le 650mila copie vendute in meno di 3 mesi. Sana indignazione che rappresenta un'autentica linfa vitale per gli stati civili che vogliano dirsi tali, unico vero anticorpo contro la degenerazione morale di qualsiasi società. Sentimento – l’indignazione – ancora vivo negli animi di quei francesi che hanno saputo custodire e tramandare con cura ed orgoglio le proprie radici resistenziali, tanto che, ancora oggi, il primo giorno di scuola gli alunni leggono la lettera che il giovane partigiano Guy Môquet scrisse ai genitori prima di essere fucilato dai nazisti.


No, l’italiano si indigna per altro. Chiude un occhio – quando non tutti e due – di fronte alle complicità tra mafia e istituzioni; ingoia taciturno il volgare pressapochismo di quei politici che rispondono al disperato grido d’aiuto degli operai – i nuovi schiavi del 21° secolo – con l’ottusa dicotomia dei “buoni” contro i “cattivi”; risolve il problema dell’imbarazzante e dilagante accoppiata clientelismo-corruzione con l’assolutoria (ed autobiografica?) formula del “così fan tutti”.
Ma, da buon cattolico, non transige sulle questioni dei piaceri carnali.


Lo fa – questo dimostra il dibattito sulla vicenda ruby/atto2°, di questi giorni – con la punta di orgoglio di quel maschio italico che non deve chiedere (e pagare) mai. Che non si indigna, dunque, per gli aspetti veramente gravi della vicenda:
  • un Premier che promuove una concezione oggettificata delle donne, sistemate all’interno di palazzine come bestie nelle gabbie e richiamate all’ovile di Arcore – attraverso il vergognoso utilizzo di uomini e mezzi dei corpi dello Stato – quando c’è da placare la fame del sultano;
  • un Premier che, nel migliore dei casi – se, cioè, dovessimo credere alla versione del padre premuroso che aiuta la giovane figlia sbandata a colpi di banconote e gioielli – mostrerebbe la totale mancanza di quel senso di responsabilità che dovrebbe caratterizzare non solo chi ricopre un simile ruolo istituzionale, ma anche una qualsiasi persona adulta dotata di buon senso. Nel peggiore – se, cioè, verranno accertati i reato di prostituzione minorile e concussione – dimostrerebbe di essere ciò che molti, da anni, lo accusano di essere: un imprenditore-politico abituato a censurare le proprie nefandezze con l’abuso di potere e la corruzione;
  • un Premier che decide di trascorrere il 25 aprile, festa della Liberazione, tra festini e cene con l’amico Putin, comprovato leader di libertà.

No, l’italiano si indigna perché una delle decine di ragazze transitate da Arcore (si parla addirittura di un totale di oltre 100) era minorenne. Il che, di per sè, è assolutamente comprensibile. Il problema è che a questa indignazione non si accompagna l'altrettanto sacrosanta sensazione di nausea per chi con una mano legifera contro la prostituzione – con leggi spesso controproducenti che foraggiano il sistema schiavistico-criminale – e con l’altra la alimenta. E' la sacrilega violazione dell’onore del macho italiano, dunque, la vera causa del risentimento popolare. Essa vede nel pugno di mesi che, al momento delle ipotetiche prestazioni di Ruby, separavano la ragazza dal raggiungimento della maggiore età, l’unica vera macchia morale della vicenda.


Un celebre proverbio cinese recita: “quando il dito indica la luna, lo sciocco guarda il dito”. Dunque: dita non siamo, luna men che meno…


Andate al diavolo, cinesi comunisti!

mercoledì 12 gennaio 2011

Italia, what else?



Di seguito trovate l'articolo che ho avuto il piacere di scrivere per i ragazzi di Pane & Politica, portale dedicato alla comunicazione ed al marketing politico (a proposito: dategli un'occhiata a questo link!!).
A loro vanno il mio ringraziamento e i miei migliori auguri per la buona riuscita del progetto.


“Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. La celebre frase, attribuita a Massimo D’Azeglio, risuona incredibilmente attuale se rapportata ai rumors che danno il nome della nostra penisola in pole position tra le possibili etichette del nuovo partito di Berlusconi.

Checchè ne dicano Silvio e i suoi, infatti, l’esigenza di trovare un nuovo nome per un nuovo partito va ben al di là delle diatribe legali tra il (disciolto) Pdl e il fresco Fli. Il “Dio sondaggio” dice che c’è da tamponare la preoccupante emorragia di voti ed elettori – gli “italiani”, appunto – che, vuoi per gli scandali sessuali, vuoi per le inchieste giudiziarie, vuoi per la fuoriuscita-cacciata di Fini, ha interessato il Pdl in questi ultimi mesi. Emorragia che, per il partito nato in pompa magna dall’ennesima trovata politico-mediatica di Berlusconi e dominatore incontrastato di tutti gli appuntamenti elettorali degli ultimi 2 anni e mezzo, comincia ad essere preoccupante, tanto da richiedere, se non proprio una Renziana “rottamazione”, quantomeno una pronta revisione.
C’è inoltre da operare un riposizionamento strategico che, da un lato, consenta di riempire quell’area politica liberata dalla dipartita-cacciata della componente neo-centrista di Fini, dall’altro, dia un forte segno di discontinuità tra il Pdl pre-scissione, che covava al suo interno il seme del tradimento, e quello del dopo Mirabello.
E quale nome più di “Italia” potrebbe consentire, contemporaneamente, di (ri)conquistare il voto dei conservatori spiazzati dal centrismo di Fini e di riaccendere gli animi delle frange più calde del “tifo” berlusconiano? Nessuno.

Riappropriandosi della vecchia e (a suo tempo) innovativa trovata di trapiantare il gergo calcistico-sportivo nella retorica politica, Berlusconi conta dunque di scaldare il motore in vista delle possibili elezioni anticipate.
Sfondo azzurro che richiama i colori della nazionale, nastro tricolore nel mezzo e scritta “Berlusconi presidente” ben evidente, il nome “Italia” rappresenterebbe il punto di arrivo di quell’ideale percorso iniziato nel 1994 con il caldissimo “Forza Italia” e proseguito nel 2007 con il più tiepido “Popolo delle Libertà”. Un nome ed un logo che, come hanno suggerito i sondaggisti e gli esperti di marketing ingaggiati dal partito, strizzerebbero l’occhio alla dimensione patriottica nell’anno del 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
Una sigla – Italia – che risponderebbe alla necessità di uscire dai classici schemi della comunicazione politica e che, ad esempio, non potrebbe essere sintetizzata, compressa o più semplicemente ridotta all’impronunciabile sigla-acronimo di turno.

E chiessenefrega, dunque, se qualcuno potrebbe sottolineare l’evidente contraddizione tra l’adozione di un nome – Italia – che cerca di unire, e l’utilizzo di retoriche strategie politiche che, nei fatti, puntano a dividere (tra berlusconiani ed anti-berlusconiani, tra liberali e comunisti, tra partito dell’amore e partito dell’odio, ecc…).
Chissenefrega anche se l’alleato più fedele, un giorno sì e l’altro pure, grida alla secessione dal resto dell’Italia e dalla capitale ladrona.
Una cosa è la politica, un’altra è l’immagine.

Quale delle due, oggi, conta di più?