sabato 19 marzo 2011

Inutilità d’Italia

L’Italia è un’espressione geografica
(K. von Metternich)

Chiamatelo pure cinismo, ignoranza o superficialità, ma io, il 17 marzo, non ho proprio capito che cosa diavolo si sia festeggiato.

Mi dicono che era l’anniversario dei 150 anni dalla nascita dell’Italia unita. “Embè?”, mi verrebbe da rispondere.
Tralasciamo il paradosso per cui la Sardegna, dal cui regno l’Italia deriva, è oggi la più secessioniste tra le regioni italiane – e, a guardare la latrina politico-economico-morale in cui una cricca di spregiudicati arrivisti sta facendo sprofondare il belpase, non le si può certo dare torto.
Tralasciamo pure il patetico teatrino del “festa nazionale si” – “festa nazionale no”, risoltosi in una sterile baruffa tra nostalgici del ventennio e industriali che blaterano di incalcolabili contraccolpi sulla produttività e sull’economia in un’annata in cui, peraltro, 25 aprile e 1° maggio cadono in giorni festivi (per la gioia di molti?).

Ebbene: perché dovrei festeggiare? Forse perché 150 è un multiplo di 5? O perché è un multiplo di 10? Lo è anche di 15, a pensarci bene. Ed è pure la metà di 300. Niente male come significato simbolico! E dire che il superficiale ero io…
E ancora: perché dovrei celebrare l'Unità? Voglio dire: è “unita” ’Italia che ha schiavizzato e colonizzato mezza Africa. E’ “unita”l’Italia che si è resa complice del più grande e infame genocidio che la storia ricordi. E’ “unita” (o meglio: è proprio da quando è unita) l’Italia che ha accolto e fatto germogliare nel suo grembo il seme delle più potenti e pervasive organizzazioni criminali del mondo. E ancora: è “unita” l’Italia che si è indebitata fino all’orlo del collasso (ma “ci stiamo lavorando”, sembrano dirci i nostri amati banchieri e politicanti) ed è “unita” l’Italia che ha mandato a morire i propri soldati in nome del nulla, affamato i propri abitanti e cancellato il futuro di intere generazioni.

Ma soprattutto: che cosa dovrei festeggiare? “L’orgoglio di una nazione che ha dato i natali a Cavour e Mazzini, a Dante e Petrarca, a Fellini e Benigni!” mi sento ripetere ossessivamente in questi giorni.
Ora: che il semplice fatto di essere nato all’interno della stessa giurisdizione di un’altra persona, per quanto virtuosa e stimabile, trasferisca per osmosi analoghe doti e virtù a tutti gli abitanti di quella stessa giurisdizione mi sembra una teoria già parecchio stramba (e, per certi versi, pure offensiva: i vari Dell’Utri, Scilipoti, Mussolini e Bossi son pur sempre nati sul suolo italico): il fatto di condividere con Benigni e Fellini le stesse 8 lettere a fianco della voce “nazionalità” della carta d’identità non mi rende certo un uomo migliore, così come abitare nella stessa via di un prete non mi provocherebbe improvvisi e irrefrenabili raptus pedofili (si scherza, Padre!).

E nemmeno ho mai particolarmente amato e interiorizzato i concetti di patria e nazione. Forse perché, dietro di essi, ho sempre visto celarsi la dicotomia interno/straniero, e con essa i germi della discriminazione tra gli uomini e della contrapposizione amico/nemico che, oltre ad essere categorie particolarmente insopportabili in sé, sono state storicamente foriere di odio e violenza.
O, forse, perché in una vera nazione, a ben vedere, credo di non aver mai vissuto.
Qual è, in cosa si contraddistingue, da cos’è legato quel “popolo” italiano con cui molti, in questi giorni, si riempiono la bocca? Dal “gli immigrati a casa loro!” dei (neo)fascisti?
Dov’è la solidarietà che dovrebbe contraddistinguerlo? Nelle farneticanti accuse leghiste ai terremotati dell’Aquila?
Dove sta l’amore per la propria terra e per il futuro dei propri figli? Nella spregiudicatezza con cui i ricchi industriali del nord pagano la Camorra per smaltire a prezzi stracciati i propri rifiuti tossici, avvelenando intere regioni e svendendone il futuro per poche migliaia di euro? O nell’energia nucleare che esperti e scienziati ci spacciano come la soluzione del futuro?

Guardiamoci. Abbiamo visto e sopportato di tutto: povertà, guerre, catastrofi naturali, scandali di ogni tipo, stragi di stato. Siamo sopravvissuti al fascismo – grazie ad uno dei pochi sussulti di orgoglio della nostra storia – e al terrorismo, ma siamo in grado di sentirci veramente uniti soltanto durante le partite della nazionale.
Intenti come siamo a badare sempre e solo al nostro caro piccolo orticello, non muoviamo un dito di fronte allo spaventoso intreccio economico-politico-mafioso che ci sta sfilando il futuro dalle nostre mani. La prova? Una conversazione intercettata tra un boss della ‘Ndrangheta e il suo giovane erede:
“ricordati che il mondo si divide in due: ciò che è Calabria e ciò che lo diventerà”.


Questa si che è Unità.

martedì 1 marzo 2011

Sangue è bello?

Dolore è più dolor, se tace
(G. Pascoli)


Ebbene si: sono d’accordo con il “Giornale”.
Il quotidiano di Via Negri è l’unico dei primi 10 quotidiani generalisti italiani a non aprire - oggi, domenica 27 febbraio – con la notizia del ritrovamento del cadavere di Yara Gambirasio, la ragazzina misteriosamente scomparsa 3 mesi fa nella bergamasca.

Certo, ammetto che l’intervista al Cardinale Bagnasco e l’editoriale-fiume di Giuliano Ferrara – che coprono quasi interamente la prima pagina del “Giornale” – possano dissuadere i più ad avventurarsi oltre nella lettura del quotidiano. Ma piuttosto che sorbirsi l’ennesima rappresentazione pornografica della tragedia o vedere la foto senza veli dell’avversario di turno del padrone (tale Silvio Berlusconi), questo ed altro!
Dunque, almeno per oggi, teniamoci strette le acute riflessioni del Giulianone nazionale – che ci ricorda come il grande errore di Napolitano fu quello di contribuire all’abolizione dell’immunità parlamentare – e ammiriamo in religioso silenzio le acrobazie lessicali con le quali il Cardinale Bagnasco riesce a dimostrarci come i macroscopici ed inquietanti risvolti politici, etici, giudiziari ed istituzionali del caso Ruby, in realtà, altro non siano che la dimostrazione di una “fibrillazione politica ed istituzionale che non avvantaggia la società e rischia di creare un clima avvelenato che rende insicuri e, alla lunga, intolleranti”. Guai!

Sorvoliamo, dunque, sull’incredibile intreccio orgiastico tra potere e informazione per cui accade che il direttore di un giornale posseduto dalla (ex)moglie dell’attuale Presidente del Consiglio (Giuliano Ferrara. Il direttore, non la moglie eh…) scriva un editoriale sul giornale (il Giornale) del fratello del Presidente del Consiglio (Paolo Berlusconi) per difendere il Presidente del Consiglio, del quale governo, peraltro, lui (Giuliano Ferrara) è stato Ministro dal 1994 al 1995. Dimentichiamo che fra poche settimane Ferrara potrà di quello spazio di approfondimento politico che fu di Enzo Biagi.
Arrendiamoci di buon grado persino all’idea che il semplice fatto di rappresentare un’istituzione religiosa porti in dote a chi la rappresenta – in questo caso il Cardinale Bagnasco – competenze pressoché illimitate in qualsiasi ambito, tali da garantire all’eminenza di turno spazi pressochè illimitati sui media nazionali e da consentirgli di esprimersi a ruota libera, un giorno si e l’altro pure, su tutto lo scibile umano (dal federalismo alle rivoluzioni in nordafrica).

Tutto, pur di risparmiarsi l’ennesima manifestazione di quel voyeurismo morboso del delitto che è ormai diventato un genere informativo di successo in un’Italia in cui ci sarebbe ben altro di cui occuparsi. Colpa dei media? Anche. Dei cittadini? Soprattutto.

Se è infatti vero che giornali e televisioni (anche il tg la7, ahimè) dimostrano di anteporre esigenze puramente commerciali ai propri dettami deontologici, che la delicatezza della professione giornalistica imporrebbe di rispettare in modo molto più rigoroso, è anche vero che il pubblico dimostra di appassionarsi oltremodo a queste vicende di cronaca nera, che nulla hanno a che fare con l’interesse pubblico. Cosa ancor più grave, questa passione deriva più dalla necessità – tipica dell’italiano medio – di assecondare la propria indole da telespettatore “divano, birra e telecomando” che non dal desiderio di provare, una volta ogni tanto, quel sano sentimento di solidarietà umana, ormai così anacronistico.

E la tragedia dai risvolti macabri e oscuri – diluita, come nella più squallida delle sit-com, in comode e avvincenti puntate – si presta perfettamente a questo tipo di rappresentazione spettacolarizzata: unisce il pathos dell’attesa di nuove rivelazioni (sul ritrovamento del cadavere, sull’arma del delitto, sul movente, sull’assassino) alla pornografia del dolore. Quella che si nutre delle lacrime che bagnano i volti dilaniati dal dolore dei familiari e degli amici della vittima. Quella che si alimenta dei dettagli più scabrosi sulle modalità utilizzate dal carnefice. Quella che ingurgita ossessivamente tutti i particolari sulle condizioni del corpo martoriato dalla follia omicida.

E così, tra gli immancabili pellegrinaggi sul luogo del delitto – ormai eretto a luogo di culto in cui gli adepti del dio-tv possono ritagliarsi il proprio minuto di celebrità –, le testimonianze di amici e parenti che assicurano che la vittima “era una brava persona” – quasi a dire: “altrimenti l’assassino non avrebbe avuto tutti i torti” – ed il ricordo commosso del parroco di turno, cala il sipario, pronto a riaprirsi non appena le indagini o l’autopsia forniranno nuovo materiale con cui saziare la fame dei bulimici della tragedia.

Sullo sfondo tante storie drammatiche che rimangono nel silenzio.
Sono quelle che avvengono lontane dai riflettori dei media: nelle carceri, nei corridoi delle questure, sulle gelide panchine di parchi e stazioni, nelle baracche di periferia, nei cantieri, nelle acque agitate che separano l’Africa dalla Sicilia.
Storie di morti che diventano numeri. Storie che andrebbero raccontate e denunciate per impedire che si ripetano. Storie che, probabilmente, in pochi ascolterebbero con la stessa attenzione.
Storie che, per questo, vengono ignorate.


It’s the market, baby.