(K. von Metternich)
Chiamatelo pure cinismo, ignoranza o superficialità, ma io, il 17 marzo, non ho proprio capito che cosa diavolo si sia festeggiato.
Mi dicono che era l’anniversario dei 150 anni dalla nascita dell’Italia unita. “Embè?”, mi verrebbe da rispondere.
Tralasciamo il paradosso per cui la Sardegna, dal cui regno l’Italia deriva, è oggi la più secessioniste tra le regioni italiane – e, a guardare la latrina politico-economico-morale in cui una cricca di spregiudicati arrivisti sta facendo sprofondare il belpase, non le si può certo dare torto.
Tralasciamo pure il patetico teatrino del “festa nazionale si” – “festa nazionale no”, risoltosi in una sterile baruffa tra nostalgici del ventennio e industriali che blaterano di incalcolabili contraccolpi sulla produttività e sull’economia in un’annata in cui, peraltro, 25 aprile e 1° maggio cadono in giorni festivi (per la gioia di molti?).
Ebbene: perché dovrei festeggiare? Forse perché 150 è un multiplo di 5? O perché è un multiplo di 10? Lo è anche di 15, a pensarci bene. Ed è pure la metà di 300. Niente male come significato simbolico! E dire che il superficiale ero io…
E ancora: perché dovrei celebrare l'Unità? Voglio dire: è “unita” ’Italia che ha schiavizzato e colonizzato mezza Africa. E’ “unita”l’Italia che si è resa complice del più grande e infame genocidio che la storia ricordi. E’ “unita” (o meglio: è proprio da quando è unita) l’Italia che ha accolto e fatto germogliare nel suo grembo il seme delle più potenti e pervasive organizzazioni criminali del mondo. E ancora: è “unita” l’Italia che si è indebitata fino all’orlo del collasso (ma “ci stiamo lavorando”, sembrano dirci i nostri amati banchieri e politicanti) ed è “unita” l’Italia che ha mandato a morire i propri soldati in nome del nulla, affamato i propri abitanti e cancellato il futuro di intere generazioni.
Ma soprattutto: che cosa dovrei festeggiare? “L’orgoglio di una nazione che ha dato i natali a Cavour e Mazzini, a Dante e Petrarca, a Fellini e Benigni!” mi sento ripetere ossessivamente in questi giorni.
Ora: che il semplice fatto di essere nato all’interno della stessa giurisdizione di un’altra persona, per quanto virtuosa e stimabile, trasferisca per osmosi analoghe doti e virtù a tutti gli abitanti di quella stessa giurisdizione mi sembra una teoria già parecchio stramba (e, per certi versi, pure offensiva: i vari Dell’Utri, Scilipoti, Mussolini e Bossi son pur sempre nati sul suolo italico): il fatto di condividere con Benigni e Fellini le stesse 8 lettere a fianco della voce “nazionalità” della carta d’identità non mi rende certo un uomo migliore, così come abitare nella stessa via di un prete non mi provocherebbe improvvisi e irrefrenabili raptus pedofili (si scherza, Padre!).
E nemmeno ho mai particolarmente amato e interiorizzato i concetti di patria e nazione. Forse perché, dietro di essi, ho sempre visto celarsi la dicotomia interno/straniero, e con essa i germi della discriminazione tra gli uomini e della contrapposizione amico/nemico che, oltre ad essere categorie particolarmente insopportabili in sé, sono state storicamente foriere di odio e violenza.
O, forse, perché in una vera nazione, a ben vedere, credo di non aver mai vissuto.
Qual è, in cosa si contraddistingue, da cos’è legato quel “popolo” italiano con cui molti, in questi giorni, si riempiono la bocca? Dal “gli immigrati a casa loro!” dei (neo)fascisti?
Dov’è la solidarietà che dovrebbe contraddistinguerlo? Nelle farneticanti accuse leghiste ai terremotati dell’Aquila?
Dove sta l’amore per la propria terra e per il futuro dei propri figli? Nella spregiudicatezza con cui i ricchi industriali del nord pagano la Camorra per smaltire a prezzi stracciati i propri rifiuti tossici, avvelenando intere regioni e svendendone il futuro per poche migliaia di euro? O nell’energia nucleare che esperti e scienziati ci spacciano come la soluzione del futuro?
Guardiamoci. Abbiamo visto e sopportato di tutto: povertà, guerre, catastrofi naturali, scandali di ogni tipo, stragi di stato. Siamo sopravvissuti al fascismo – grazie ad uno dei pochi sussulti di orgoglio della nostra storia – e al terrorismo, ma siamo in grado di sentirci veramente uniti soltanto durante le partite della nazionale.
Intenti come siamo a badare sempre e solo al nostro caro piccolo orticello, non muoviamo un dito di fronte allo spaventoso intreccio economico-politico-mafioso che ci sta sfilando il futuro dalle nostre mani. La prova? Una conversazione intercettata tra un boss della ‘Ndrangheta e il suo giovane erede:
“ricordati che il mondo si divide in due: ciò che è Calabria e ciò che lo diventerà”.
Questa si che è Unità.