"In ogni caso, la causa della rivolta è l’ineguaglianza"
(Aristotele)
Francis Fukuyama. Cosa potrebbe mai partorire di buono la mente di un uomo con un nome da avvocato appena uscito da Harvard e un cognome da centro massaggi thailandese?
No, non è il rancore per il votaccio che il suo saggio “The end of history” mi fece prendere qualche anno addietro. Quella è acqua passata e il caro vecchio Francis, con il suo faccione a metà tra un Jonny Chan invecchiato e l’Alvaro Vitali dei tempi migliori (vedere per credere), iniziava quasi a diventarmi simpatico.
La vera ragione del mio risentimento nei confronti del nippoamericano di orientamento “neocon” – pittoresca espressione con la quale gli analisti usano descrivere quella gloriosa stirpe di presidenti americani che scambiava il mandato conferitogli dagli elettori con una libertà pressoché illimitata di bombardare tutto ciò che si trovava al di là del 14° meridiano – risiede in una semplice constatazione: Fukuyama ha clamorosamente sbagliato. Quindi, tecnicamente, la risposta che diedi a quell’esame sarebbe da rivalutare. Voglio dire: ci sarà pure una differenza tra il non capire una teoria corretta e non capirne una palesemente sballata.
Ok, vi sto facendo perdere quei preziosi due minuti di tempo che vi siete ritagliati tra una puntata di "Che tempo che fa" e un appello di Saviano su Repubblica. Rientro in tema.
La teoria di Fukuyama, dicevamo. Ebbene nel suo “The end of History” del 1989 e nella riedizione aggiornata del 1992 “The end of History and the last man”, l’analista sostiene che il mondo post-comunista si divida sostanzialmente in due categorie: una prima categoria composta da tutti quegli stati (occidentali) in cui la democrazia liberale e il libero mercato sono una garanzia assoluta del benessere, della prosperità e del rispetto dei diritti umani all’interno delle popolazioni che li abitano. Questi stati avrebbero raggiunto il grado massimo di sviluppo, progresso e “maturità”. Uno stadio di evoluzione e benessere che li proietta “al di fuori della storia”, intesa come quella condizione in cui guerre e conflitti conservano la loro natura di principale strumento per la risoluzione delle controversie internazionali.
La seconda categoria composta da tutti quegli stati che, rigettando i dettami dell'economia di mercato, rimarranno “impantanati nella storia”, esprimendo nei continui conflitti la loro dimensione di arretratezza.
Per convincervi di come questa prospettiva abbia completamente fallito avete tre modi: aprire gli occhi (o accendere la televisione ad una qualsiasi ora e su un qualsiasi canale, o leggere “il Riformista”, o andare su google e vedere che cosa vi esce digitando “Ministro delle Riforme per il Federalismo”), chiedere ai cittadini dell’isola di Granada, di Belgrado, di Bagdad, di Tripoli e di Mogadiscio che cosa ne pensino del neo-acquisito pacifismo occidentale e farvi un giro in Puerta del Sol, Madrid, Spagna.
Qui, da ormai una settimana, migliaia di giovani precari (espressione ormai ridondante), studenti, lavoratori e persino mamme con bimbi al seguito hanno indetto un presidio permanente, silenzioso e pacifico contro il sistema sociale, economico e politico generato dal libero mercato tanto caro a Fukuyama.
Che cosa chiedono queste migliaia di “persone qualunque” – che da noi sarebbero già state tacciate di estremismo, di amicizie con pericolosi terroristi, di furti di auto, di aver barato alla tombola del natale ’84; insomma tutte quelle accuse con cui i nostri sindaci donne milanesi il cui cognome inizia per Moratti controbattono brillantemente a chi gli fa notare che nelle loro liste ci sono persone in contatto con esponenti della ‘ndrangheta e che pure al tipetto basso dal cranio bitumato il cui nome campeggia in bella mostra sui loro manifesti elettorali si è dimostrato molto ospitale con insospettabili stallieri siciliani – ?
Chiedono che il mito del progresso non venga più unicamente declinato nell’ottusa accezione di crescita economica – di cui beneficerebbe sempre e comunque il manipolo di affaristi che manovra l’economia – ma che venga perseguito nella più ampia e autentica accezione del suo significato: un “progresso umano” basato su di uno “sviluppo sostenibile”, su di un sistema di welfare egualitario e solidale. E che, udite udite, abbia come fine ultimo la felicità delle persone e non “l’accumulazione di soldi senza riguardo per il benessere della società”, che fino a ora ha creato solamente una massa di “consumatori infelici”.
Le proposte per uscire da questo pantano riguardano l’eliminazione dei privilegi della classe politica, le misure contro la disoccupazione e l’aumento dei salari minimi, le politiche per il diritto alla casa, l’aumento delle imposte per le grandi banche e la lotta alla corruzione in tutte le sue possibili forme. Insomma, un sistema che chiede una nuova democrazia, una “Democrazia reale” e realmente partecipativa e inclusiva.
Utopie? Forse, ma un tale, negli anni ’60, diceva che “sono le grandi utopie a muovere i grandi ideali della storia”.
Questo tale - si capisce - non era Francis Fukuyama.
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