"In una simile epoca, forse è la follia la condizione di ogni autenticità"
(K. Jaspers)
(K. Jaspers)
Leggere una poesia. Ad alta voce. Nell’ora di punta di un venerdì di inizio primavera. In una vagone della metropolitana. Infrangere quella grigia gabbia fatta di conformismo, monotonia e solitudine, dentro la quale crediamo di sentirci – e, forse, davvero ci sentiamo – al riparo dall’angosciante varietà del mondo esterno. Sbattere in faccia alle persone i loro stessi pregiudizi, figli di una società in cui una sempre più banalizzante normalità viene coltivata a piene mani e la “diversità”, in tutte le sue possibili manifestazioni, guardata con diffidenza, dove non apertamente avversata.
Martina, con un’abilità narrativa e descrittiva che fa arrossire di invidia questo blog (e il sottoscritto), racconta il suo recente esperimento “sociologico”, offrendo numerosi e interessantissimi elementi di riflessione.
Dunque, a lei (che ringrazio) la penna.
Premessa e riflessioni: Un compito non facile. Riconosco, a me stessa e agli altri, che fare i conti con il proprio (imposto?) senso di vergogna è stata una sfida in parte sottovalutata. Credevo, non appena ricevuta la consegna dell'esercizio, che sarei riuscita a svolgerlo la sera stessa; invece questa convinzione istintiva si è trasformata in un percorso intenso ed elettrizzante di intimi dialoghi tesi a spronarmi, a smontare le giustificazioni che trovavo per rimandare, a fornirmi motivazione. Ho dubitato pochissimo nella scelta di quale poesia recitare. Indecisa all'inizio, ho poi optato per un testo a cui sono molto legata, sia emotivamente che intellettualmente: una delle tante meravigliose, appassionate e tormentate dichiarazioni d'amore all'Amore scritte da Alda Merini. “Mi sono innamorata/ delle mie stesse ali d'angelo,/ delle mie nari che succhiano la notte,/ mi sono innamorata di me e dei miei tormenti./ Un erpice che scava dentro le cose,/ o forse fatta donzella/ ho perso le mie sembianze./ Come sei nudo, amore,/ nudo e senza difesa:/ io sono la vera cetra/ che ti colpisce nel petto/ e ti dà larga resa”. Ho scelto questa autrice per una ragione ben precisa. Oltre alla bellezza e alla vorticosa pienezza delle sue parole, Alda Merini è una donna che per tutta la sua vita ha sorriso (e deriso) in faccia agli stereotipi, alle etichette; ha sfidato, talvolta inconsciamente, il senso comune e specialmente il pubblico pudore vivendo e raccontando di amori passionali caratterizzati da una carnalità spinta all'estremo. È una donna, per riassumere, che ha sempre avuto il coraggio di non avere vergogna di sé, delle proprie emozioni e percezioni, del suo essere immensa e indefinibile. Proprio questo coraggio di non avere vergogna, se intendiamo la vergogna come il risultato di una costruzione sociale volta a normalizzare e controllare ogni fenomeno, è ciò che più mi ha ispirato. Se inizialmente, più volte, mi sono scoperta a improvvisare giustificazioni per il fiato corto e la voce che non usciva (“questo vagone è inadeguato, troppo grande, troppo dispersivo, troppa poca gente” o ancora, “ no, la voce elettronica che annuncia le fermate confonde, non va bene”, ed altre ragioni assolutamente pretestuose) la svolta è stata trasporre questo esercizio sul piano della sfida: sfida con me stessa sì, ma soprattutto sfida tra me e la società nel suo complesso. La volontà di abbattere il muro della vergogna, il non voler accettare il modus diffuso e diffusivo per cui una persona non legge una poesia su una metropolitana alle 20.30 di un venerdì sera qualunque. Perché non posso?, mi sono domandata. Al di là delle logiche che appartengono alla sfera della convivenza civile e reciprocamente rispettosa (se tutti urlassero, cantassero, declamassero versi, i luoghi pubblici sarebbero invivibili), io voglio sentirmi nella posizione di poter decidere se e come e quando commettere una precisa azione: più probabile che tenderò a non recare disturbo agli altri, ma sta al mio buon senso, alla mia razionalità, scegliere se muovermi in direzione di un comportamento socialmente dirompente o, al contrario, non urtare l'ordinarietà; ma partendo da un presupposto altamente significativo e centrale: la personale percezione della potenziale libertà di scegliere.
La scena e le reazioni: Metropolitana, linea verde. Sono le 20.30, ora di rientro per i più, quando salgo sul vagone. Non cerco un posto a sedere, come è mio solito, ma resto in piedi un po' defilata per osservare l'ambiente, familiarizzarci, aspettare di avvertire la sensazione propulsiva. Lascio che il treno consumi un paio di fermate, inspiro, respiro ed esclamo, a voce altissima per coprire i rumori dei binari, il primo verso. Stringo il libro nella mano destra che lo impugna ma mi guardo intorno per poter incontrare gli occhi dei presenti che si sollevano e si spalancano. Ad intermittenza rivolgo la mia visuale al libro e alle persone, macino fino alla fine tutti i versi, alzo nuovamente lo sguardo, sorrido (o forse rido, addirittura) e vado a sedermi cercando un posto che non mi precluda la visione di un angolo del vagone. Le reazioni che raccolgo sono le più disparate ma non del tutto imprevedibili. Una ragazza, seduta affianco a me, si complimenta per il coraggio e per la mia bravura, dice: “Bella!”. Mi viene spontaneo chiederle se si fosse domandata il senso della mia azione e lei, in piena sincerità, mi risponde di aver creduto che si trattasse di un esercizio per un corso di recitazione perché “eri sicura, brava e sorridevi tanto mentre leggevi!”. Vorrei continuare a parlare con lei che così sinceramente ha sospeso il giudizio ed ha voluto entrare in contatto con me ma è arrivata alla sua fermata. Si alza in fretta, mi saluta con la mano e mi ringrazia per quel momento. Un'altra ragazza, più timidamente, mi chiede solamente se fossi io l'autrice di quella poesia. Si congratula per il coraggio ma è evidente che non intenda parlare, lo avverto dal fatto che per esempio non mi avvicina ma mi parla restando a due sedute di distanza da me. Ci scambiamo un sorriso finale e il nostro dialogo si esaurisce fino a che, arrivata a destinazione, mi saluta con un cenno. C'è poi una signora, seduta al fondo del vagone, che mi osserva fissamente dal primo istante, prima ancora dell'azione. Non so cosa esattamente abbia attirato e fatto permanere la sua attenzione, me lo chiedo ma non trovo risposta (forse è la più scontata: il mio “apparire” non esattamente confondibile, diciamo così, ma mi sembra riduttivo limitarsi all'abbigliamento; c'è altro, che non capisco, nel suo modo di guardarmi). Solo dopo la lettura, i suoi occhi hanno cominciato a spostarsi ad intervalli da me alla mia mano che appuntava e viceversa; ed in questo modo per tutto il viaggio (circa mezz'ora!). Uno sguardo davvero complesso da decifrare, il suo: interrogativo ma non particolarmente curioso, rigido, un po' cupo ma non severo, né una volontà di comprensione né un giudizio affrettato, ma neanche indifferenza, altrimenti non avrebbe indugiato tanto a lungo su di me. Infine le altre reazioni raccolte, che sono invece più composte: chi ridacchia all'irrompere della mia voce inaspettata sulla scena, chi mi guarda (o meglio, fulmina) con fare quasi infastidito come se abbia costituito motivo di interruzione o distrazione, chi addirittura, parlando al telefono mentre recito, proferisce sottovoce ma con aria palesemente stizzita queste parole: “ Ehi, c'è una pazza in metro che legge e urla, non ti sento...ripeti, per favore!”. Chi, infine, solleva lo sguardo un istante solo all'inizio ma poi riduce a zero il suo sforzo di interpretare la situazione, di attribuirle un senso più o meno articolato che non sia una sorta di disinteressato “...guarda et passa...”, per poi ovviamente rituffarsi nell'i-phone che maneggiava prima dell'interruzione, nel portatile per ultimare il lavoro tralasciato, nel proprio romanzo, banalmente nella propria comoda ed inviolabile ordinarietà. Arrivo alla mia fermata. Mi sento felice, grintosa, liberata da un immane senso di vergogna e spogliata da quella inibizione paralizzante. Penso che vorrei rifarlo, ripenso a quanto liberatorio sia stato e mi convinco che lo rifarò. Ricorrerò a questa scarica energizzante di forza quando mi sentirò di nuovo abbattuta, triste, turbata, proprio come il giorno in cui l'ho fatto per la prima volta, con nel cuore il dolore per la morte di Vittorio. Vittorio Arrigoni.
Martina Mazzeo, 15/04/2011.
Martina, con un’abilità narrativa e descrittiva che fa arrossire di invidia questo blog (e il sottoscritto), racconta il suo recente esperimento “sociologico”, offrendo numerosi e interessantissimi elementi di riflessione.
Dunque, a lei (che ringrazio) la penna.
Premessa e riflessioni: Un compito non facile. Riconosco, a me stessa e agli altri, che fare i conti con il proprio (imposto?) senso di vergogna è stata una sfida in parte sottovalutata. Credevo, non appena ricevuta la consegna dell'esercizio, che sarei riuscita a svolgerlo la sera stessa; invece questa convinzione istintiva si è trasformata in un percorso intenso ed elettrizzante di intimi dialoghi tesi a spronarmi, a smontare le giustificazioni che trovavo per rimandare, a fornirmi motivazione. Ho dubitato pochissimo nella scelta di quale poesia recitare. Indecisa all'inizio, ho poi optato per un testo a cui sono molto legata, sia emotivamente che intellettualmente: una delle tante meravigliose, appassionate e tormentate dichiarazioni d'amore all'Amore scritte da Alda Merini. “Mi sono innamorata/ delle mie stesse ali d'angelo,/ delle mie nari che succhiano la notte,/ mi sono innamorata di me e dei miei tormenti./ Un erpice che scava dentro le cose,/ o forse fatta donzella/ ho perso le mie sembianze./ Come sei nudo, amore,/ nudo e senza difesa:/ io sono la vera cetra/ che ti colpisce nel petto/ e ti dà larga resa”. Ho scelto questa autrice per una ragione ben precisa. Oltre alla bellezza e alla vorticosa pienezza delle sue parole, Alda Merini è una donna che per tutta la sua vita ha sorriso (e deriso) in faccia agli stereotipi, alle etichette; ha sfidato, talvolta inconsciamente, il senso comune e specialmente il pubblico pudore vivendo e raccontando di amori passionali caratterizzati da una carnalità spinta all'estremo. È una donna, per riassumere, che ha sempre avuto il coraggio di non avere vergogna di sé, delle proprie emozioni e percezioni, del suo essere immensa e indefinibile. Proprio questo coraggio di non avere vergogna, se intendiamo la vergogna come il risultato di una costruzione sociale volta a normalizzare e controllare ogni fenomeno, è ciò che più mi ha ispirato. Se inizialmente, più volte, mi sono scoperta a improvvisare giustificazioni per il fiato corto e la voce che non usciva (“questo vagone è inadeguato, troppo grande, troppo dispersivo, troppa poca gente” o ancora, “ no, la voce elettronica che annuncia le fermate confonde, non va bene”, ed altre ragioni assolutamente pretestuose) la svolta è stata trasporre questo esercizio sul piano della sfida: sfida con me stessa sì, ma soprattutto sfida tra me e la società nel suo complesso. La volontà di abbattere il muro della vergogna, il non voler accettare il modus diffuso e diffusivo per cui una persona non legge una poesia su una metropolitana alle 20.30 di un venerdì sera qualunque. Perché non posso?, mi sono domandata. Al di là delle logiche che appartengono alla sfera della convivenza civile e reciprocamente rispettosa (se tutti urlassero, cantassero, declamassero versi, i luoghi pubblici sarebbero invivibili), io voglio sentirmi nella posizione di poter decidere se e come e quando commettere una precisa azione: più probabile che tenderò a non recare disturbo agli altri, ma sta al mio buon senso, alla mia razionalità, scegliere se muovermi in direzione di un comportamento socialmente dirompente o, al contrario, non urtare l'ordinarietà; ma partendo da un presupposto altamente significativo e centrale: la personale percezione della potenziale libertà di scegliere.
La scena e le reazioni: Metropolitana, linea verde. Sono le 20.30, ora di rientro per i più, quando salgo sul vagone. Non cerco un posto a sedere, come è mio solito, ma resto in piedi un po' defilata per osservare l'ambiente, familiarizzarci, aspettare di avvertire la sensazione propulsiva. Lascio che il treno consumi un paio di fermate, inspiro, respiro ed esclamo, a voce altissima per coprire i rumori dei binari, il primo verso. Stringo il libro nella mano destra che lo impugna ma mi guardo intorno per poter incontrare gli occhi dei presenti che si sollevano e si spalancano. Ad intermittenza rivolgo la mia visuale al libro e alle persone, macino fino alla fine tutti i versi, alzo nuovamente lo sguardo, sorrido (o forse rido, addirittura) e vado a sedermi cercando un posto che non mi precluda la visione di un angolo del vagone. Le reazioni che raccolgo sono le più disparate ma non del tutto imprevedibili. Una ragazza, seduta affianco a me, si complimenta per il coraggio e per la mia bravura, dice: “Bella!”. Mi viene spontaneo chiederle se si fosse domandata il senso della mia azione e lei, in piena sincerità, mi risponde di aver creduto che si trattasse di un esercizio per un corso di recitazione perché “eri sicura, brava e sorridevi tanto mentre leggevi!”. Vorrei continuare a parlare con lei che così sinceramente ha sospeso il giudizio ed ha voluto entrare in contatto con me ma è arrivata alla sua fermata. Si alza in fretta, mi saluta con la mano e mi ringrazia per quel momento. Un'altra ragazza, più timidamente, mi chiede solamente se fossi io l'autrice di quella poesia. Si congratula per il coraggio ma è evidente che non intenda parlare, lo avverto dal fatto che per esempio non mi avvicina ma mi parla restando a due sedute di distanza da me. Ci scambiamo un sorriso finale e il nostro dialogo si esaurisce fino a che, arrivata a destinazione, mi saluta con un cenno. C'è poi una signora, seduta al fondo del vagone, che mi osserva fissamente dal primo istante, prima ancora dell'azione. Non so cosa esattamente abbia attirato e fatto permanere la sua attenzione, me lo chiedo ma non trovo risposta (forse è la più scontata: il mio “apparire” non esattamente confondibile, diciamo così, ma mi sembra riduttivo limitarsi all'abbigliamento; c'è altro, che non capisco, nel suo modo di guardarmi). Solo dopo la lettura, i suoi occhi hanno cominciato a spostarsi ad intervalli da me alla mia mano che appuntava e viceversa; ed in questo modo per tutto il viaggio (circa mezz'ora!). Uno sguardo davvero complesso da decifrare, il suo: interrogativo ma non particolarmente curioso, rigido, un po' cupo ma non severo, né una volontà di comprensione né un giudizio affrettato, ma neanche indifferenza, altrimenti non avrebbe indugiato tanto a lungo su di me. Infine le altre reazioni raccolte, che sono invece più composte: chi ridacchia all'irrompere della mia voce inaspettata sulla scena, chi mi guarda (o meglio, fulmina) con fare quasi infastidito come se abbia costituito motivo di interruzione o distrazione, chi addirittura, parlando al telefono mentre recito, proferisce sottovoce ma con aria palesemente stizzita queste parole: “ Ehi, c'è una pazza in metro che legge e urla, non ti sento...ripeti, per favore!”. Chi, infine, solleva lo sguardo un istante solo all'inizio ma poi riduce a zero il suo sforzo di interpretare la situazione, di attribuirle un senso più o meno articolato che non sia una sorta di disinteressato “...guarda et passa...”, per poi ovviamente rituffarsi nell'i-phone che maneggiava prima dell'interruzione, nel portatile per ultimare il lavoro tralasciato, nel proprio romanzo, banalmente nella propria comoda ed inviolabile ordinarietà. Arrivo alla mia fermata. Mi sento felice, grintosa, liberata da un immane senso di vergogna e spogliata da quella inibizione paralizzante. Penso che vorrei rifarlo, ripenso a quanto liberatorio sia stato e mi convinco che lo rifarò. Ricorrerò a questa scarica energizzante di forza quando mi sentirò di nuovo abbattuta, triste, turbata, proprio come il giorno in cui l'ho fatto per la prima volta, con nel cuore il dolore per la morte di Vittorio. Vittorio Arrigoni.
Martina Mazzeo, 15/04/2011.
0 commenti:
Posta un commento