venerdì 10 febbraio 2012

Alla faccia della neve. Alla faccia della 'ndrangheta

"Dove c'è un uomo, c'è un'occasione per fare del bene"
(Seneca)

Scritto per "Stampo Antimafioso" (www.stampoantimafioso.it). E per chi, se no?

Quarantacinque nuovi posti letto. Quarantacinque barbe incolte. Quarantacinque volti bianchi, neri, e gialli. Qualcuno scavato dal freddo e dalla fame, qualcun altro rosso di quel vizio che è ormai necessità, compagnia, distrazione. Quarantacinque nuovi motivi per sperare.

Da mercoledì 8 febbraio, e per le prossime notti, si trovano al terzo piano di un edificio in via Lombroso 54, poco fuori dal centro di Milano. Lì c’era un locale: “For a King”, “Per un re”, si chiamava. L’avevano inaugurato una sera di aprile del 2007: le ballerine, le luci, lo champagne. E gli uomini del clan di Salvatore Morabito. Due settimane dopo, gli arresti e il sequestro del bene. Cinque anni dopo, i senzatetto. Merito di un accordo tra il Comune di Milano e la SOGEMI, la municipalizzata che gestisce i mercati annonari della città meneghina.

Se non fosse vera, questa storia, parrebbe una metafora: del male che soccombe ai danni del bene, del puzzo di uno sfarzo arrogante, di una ricchezza unta di violenza e disonore cancellati dal profumo della dignità, del candore di un’esistenza vissuta senza compromessi, nel bene e – soprattutto – nel male. Del fortino dei (pre)potenti espugnato dal silenzioso esercito degli invisibili.E invece questa storia è vera e non è tutta rose e fiori: è anche spine.
La più appuntita si trova proprio davanti al ricovero per i senzatetto. Si chiama Ortomercato e insieme a tanta buona frutta e verdura ospita(va) chili di droga, oltre a una discreta dose di violenze e minacce ai danni di sindacalisti indefessi, di sfruttati che non vogliono più farsi sfruttare ma che vi sono costretti, se non vogliono finire anche loro al terzo piano del palazzo di fronte al quale lavorano. Lì, come al “For a King”, dominava un facchino che facchino non era, tanto che al lavoro c’andava su una fiammante Ferrari: Salvatore Morabito. A coprirlo, lì come al For a King, un ex sindacalista che sindacalista non era più, tanto che pagava parte degli stipendi dei lavoratori della sua cooperativa in nero: Antonio Paolo. Oggi, i due, lì non ci sono più, condannati a 13 anni e 8 mesi uno e a 7 anni e 8 mesi l’altro.

A questa storia, però, manca il lieto fine: nel 2012, a Milano, l’esercito di invisibili continua infatti
a crescere.

E pure l’altro.

giovedì 27 ottobre 2011

Pioltello, l'Esselunga. E la 'ndrangheta?


Scritto per "Stampo antimafioso", www.stampoantimafioso.it


Altro che corrieri della droga armati fino ai denti, improbabili automobili con il “doppiofondo”, pali e sentinelle che proteggono i traffici della “roba” da occhi indiscreti. La droga, a Pioltello, passa per le banane.

Questo l’inquietante scenario che sembra delinearsi da una storia dai contorni ancora molto oscuri: il ritrovamento di 25 chili di cocaina nei magazzini dell’Esselunga di Limito di Pioltello.
Il pesante carico di droga era nascosto proprio lì, tra biscotti e merendine, cibi in scatola e marmellate pronte ad essere distribuite nelle filiali di tutta Italia della celebre catena di supermercati, ritenuta estranea alla vicenda. Pressata in piccoli cubetti e avvolta in un involucro di plastica, la droga si mimetizzava in un carico di banane tagliate a metà. Aspettava di essere spedita altrove? O era già pronta per fornire un “aiutino” al manager meneghino di turno, movimentare le giornate dei ragazzini dell’anonima periferia milanese o dare la carica al popolo della notte nella “Milano da bere”? Molti dubbi, poche certezze.

Una di queste è il riproporsi dell’insolito connubio cibo-droga. Non molto tempo fa, ad esempio, tra le primizie di un insospettabile fruttivendolo di via Padova, fu scoperta una partita di droga, mentre a Malpensa il forte odore di un carico di pesce secco non impedì alle forze dell’ordine di rinvenire ben 24 chili di polvere bianca. E come dimenticarsi del famigerato ortomercato milanese di via Lombroso 54, da anni al centro delle cronache più per i periodici sequestri di sostanze stupefacenti, nascoste tra frutta e ortaggi, che per gli stessi prodotti della terra, che da qui vengono smerciati in tutto il milanese?
Che le tratte del traffico di droga abbiano da tempo dimostrato una spiccata propensione allo sfruttamento delle rotte del commercio lecito, sviluppando una notevole capacità mimetica che permette loro di avvalersi delle capillari capacità distributive del settore alimentare, insomma, non è una novità.

Così come è nota la forte presenza criminale nell’area dell’est milanese. L’operazione crimine-infinito dell’estate 2010 – quella dei morti ammazzati, dei colpi di pistola alla nuca, degli oltre 150 arresti in Lombardia e del summit ‘ndranghetista al circolo Falcone e Borsellino di Paderno Dugnano – ha addirittura accertato la presenza, proprio a Pioltello, di una cellula di ‘ndrangheta: la “locale di Pioltello”, appunto. Basta, questo, per attribuire il ritrovamento della droga alla mano della criminalità organizzata calabrese? Forse no. E’ sufficiente per sollecitare l’attenzione delle istituzioni e della società civile sulla presenza della criminalità organizzata nella zona? Assolutamente si, e il fatto che Ilda Boccassini, capo della direzione distrettuale antimafia milanese, sia stata avvertita del fatto, ne è la conferma.
Anche perché il mondo delle cooperative a cui vengono appaltati i lavori di gestione dei centri di smistamento dei grandi supermercati non è estraneo ad episodi di violenza, minacce e maltrattamenti.

Ne sa qualcosa Onorio Longo, presidente di una cooperativa – il consorzio Safra – che lavora proprio nel capannone di Pioltello. Il 2 maggio del 2007 l’uomo fu gambizzato con due colpi di pistola calibro 7,65 proprio a due passi dalla sede della cooperativa da lui presieduta, in zona Ortica a Milano. Anche se gli esecutori e i mandanti di quell’agguato non hanno ancora un nome, sono in molti a collegare il ferimento di Longo con il delicato ruolo che l’uomo ricopriva all’interno dell’intricato e tormentato mondo delle cooperative di facchinaggio.

Altro nome circolato sui giornali nei giorni immediatamente successivi al ritrovamento dei 25 chili di droga è quello di Natale Sartori, riconducibile a un’altra cooperativa che lavora nel capannone: l’Alma group. Motivo di queste “attenzioni” il coinvolgimento dell’uomo in alcune inchieste di mafia e traffico di droga negli anni ’90. Sartori, la cui posizione all’interno di quelle indagini è stata poi archiviata, ha subito precisato che la sua cooperativa lavora “nei settori gastronomia e scatolame, dall’altra parte rispetto al reparto ortofrutta dove è stata trovata la droga”.

A fare luce sulla vicenda, a questo punto, provvederanno i Carabinieri di Cassano d’Adda, che stanno indagando sull’insolito ritrovamento.

mercoledì 28 settembre 2011

L'antimafia si alza sui pedali


Domenica 25 settembre una coloratissima pedalata antimafia organizzata dai ragazzi del “Presidio Angelo Vassallo” di Libera ha movimentato le vie di Assago, Buccinasco, Corsico, Cesano Boscone e Trezzano sul Naviglio, comuni dell’hinterland milanese al centro di importanti operazioni antimafia…

Scritto per "Stampo Antimafioso" (www.stampoantimafioso.it)


Nel centro di Buccinasco è una calda domenica di inizio autunno. Dal ciglio del marciapiede un vecchietto guarda passare un allegro e colorato corteo di biciclette. Nei sui occhi un misto di stupore e incredulità, nella sua testa pensieri confusi che si accavallano: “Se la mafia – a Milano, al nord, in Lombardia – non esiste, perché tutte queste persone sfilano in bicicletta manifestando contro le mafie?” Il vecchio vede passare uno dopo l’altro i ciclisti, bandiera di Libera “Associazioni, nomi e numeri contro le mafie” fissate al telaio e magliette che ricordano le parole di Paolo Borsellino e Antonino Caponnetto indossate con orgoglio.

Sono gli oltre 150 cittadini che domenica 25 settembre 2011 si sono ritrovati in via Giovanni XXIII n° 6 ad Assago – indirizzo dell’ex dimora del boss Rocco Papalia oggi sede della Protezione Civile e della Caritas parrocchiale – e, casco in testa e borraccia a portata di mano, sono saliti “In bici contro le mafie”, pedalando per le vie di Assago, Buccinasco, Corsico, Cesano Boscone e Trezzano sul Naviglio. Cinque Comuni che, sommati, fanno poco più di 100mila abitanti.
E 62 tra immobili e imprese confiscate.

Qui, nella periferia sud occidentale di Milano, la mafia esiste eccome. Non lo sa il vecchietto, fingono di non saperlo molti cittadini. Lo sanno, invece, i ragazzi del presidio di Libera del sud ovest di Milano intitolato ad Angelo Vassallo.
E lo gridano senza paura, microfono in una mano, date, nomi e numeri nell’altra.

Carlotta lo fa davanti al civico numero 6 di Via Fratelli Rosselli a Buccinasco, “la Platì del nord Italia”. Anche se per molti quella casa verde è solo la sede della croce rossa dedicata a Emanuela Setti Carraro, dietro a quei muri, fino a pochi anni fa, viveva Antonio Papalia, uno dei più potenti boss della ‘ndrangheta al nord Italia e marito di Rosa Sergi, sorella del boss Francesco Sergi, anch’egli in carcere per associazione mafiosa. Poi, il 19 settembre del 1992, l’arresto e, nel 2007, l’assegnazione dell’immobile alla Croce Rossa. In mezzo un mare di paura e omertà: quella delle imprese locali che non si sono presentate al bando per i lavori di ristrutturazione dell’immobile, costringendo il Comune di Buccinasco – commissariato dal marzo 2011 dopo che il Sindaco, un assessore ai lavori pubblici e un consigliere comunale sono finiti in manette per un presunto giro di tangenti – a rivolgersi a una ditta esterna al territorio.

Elisa parla all’angolo tra via Sant’Adele e via Vittorio Emanuele II, a Corsico. Qui, affacciato sul naviglio, c’è un locale, ieri bar-pizzeria in mano ai mafiosi della zona, dal 1° ottobre 2008 sede dell’Auser – associazione di volontariato attiva nell’assistenza degli anziani dedicata a Felicia Bartolotta-Impastato.

Silvia ferma il corteo davanti alla “Casa delle Associazioni” di Trezzano sul Naviglio. Qui, in un edificio di via Cavour 22, il boss Salvatore Ciulla aveva ricavato una serie di esercizi commerciali non aperti al pubblico e utilizzati come depositi.
Rimasta inutilizzata per circa 8 anni dopo il sequestro, nel giugno del 2006 la struttura è stata restituita alla comunità e oggi ospita ben nove associazioni locali. Un gran risultato per un Comune come quello di Trezzano sul Naviglio, salito agli onori delle cronache per la brutta vicenda che ha visto Tiziano Butturini, ex sindaco di Trezzano e marito della sindaca uscente Liana Scundi, patteggiare 2 anni e 5 mesi di reclusione per un giro di mazzette che avrebbe ricevuto in cambio dell’affidamento di alcuni lavori ad aziende partecipate di un’impresa ritenuta in odore di ‘ndrangheta.

Carlotta, Elisa, Silvia e poi Michele e Rosa, infaticabile organizzatrice dell’iniziativa: sono loro, insieme a molti altri, i volti dell’antimafia di queste difficili zone. Giovani, coraggiosi e intraprendenti, guidano il corteo insieme al camioncino della Protezione Civile e ai più “esperti” membri dell’associazione “Bucci in bici”.

C’è spazio anche per qualche rappresentante delle istituzioni, durante la biciclettata: la vicesindaca di Corsico Leodilla Maria Zibardi, portando la voce della prima cittadina Maria Ferrucci, elenca alcune delle azioni concrete messe in atto dall’amministrazione comunale per contrastare la presenza e l’attività mafiosa: la costituzione del Comune come parte civile nei processi di mafia che coinvolgono il territorio comunale, la costituzione di un “gruppo legalità laboratorio per Corsico” in grado di “monitorare in modo strutturato e costante il fenomeno malavitoso” e l’organizzazione di incontri e dibattiti pubblici sul tema della legalità che culmineranno, il 20 ottobre prossimo, con una “Giornata di studio e dibattiti” in cui verranno organizzati gruppi di lavoro su temi come la sicurezza e la trasparenza nella gestione degli appalti.

Aldo Guastafierro, assessore alle politiche ambientali del Comune di Cesano Boscone, parla di fronte alla “Sala trasparenza” del paese, ribattezzata così per “sottolineare l’importanza della trasparenza nella pubblica amministrazione”. Pochi metri più in là c’è un’area adibita a parcheggio, strappata ai tentacoli della criminalità organizzata, che stava cercando di mettere in atto un’iniziativa speculativa. Non l’unico presidio della legalità nel comune del sud ovest milanese: due appartamenti di proprietà di esponenti mafiosi ospitano infatti il progetto “Casa insieme”, che dà ricovero alle donne abbandonate in situazione di grave disagio abitativo e ai loro piccoli.

Ultima, meritata, tappa della manifestazione sui pedali il Parco del Centenario di Trezzano sul Naviglio, dove le associazioni “Salvambiente” di Trezzano, “Buon Mercato” di Corsico e “Desr” Parco Sud Milano offrono a tutti i manifestanti un gustoso rinfresco a base di prodotti frutto della coltivazione biologica e della vendita diretta.

Qui, tra saluti e ringraziamenti, si conclude la biciclettata. Per sconfiggere la mafia, invece, c’è bisogno di pedalare ancora per molto.

giovedì 28 luglio 2011

Calabrie

"La Calabria sembra essere stata creata da un Dio capriccioso che, dopo aver creato diversi mondi, si è divertito a mescolarli insieme"
(Guido Piovene)

Report non convenzionale della bellissima settimana al campo di lavoro di Polistena (RC), organizzato da Libera.
Scritto per Stampo Antimafioso, lo potete trovare a questo link
http://www.stampoantimafioso.it/?page_id=31
Un ringraziamento particolare a tutti i compagni con cui ho condiviso questa splendida esperienza: non vi dimenticherò.

P.S. Grazie a Giulia per la foto!!


Nel centro di Polistena c’è un palazzo. Cinque piani in cui spaccio di droga e pestaggi erano all’ordine del giorno. Cinque piani che oggi sono in fase di ristrutturazione. Cinque piani che domani ospiteranno un ambulatorio di Emergency, un centro di ritrovo per ragazzi e molto altro ancora.

C’è anche una gioielleria, a Polistena. Si trova proprio di fronte a quel palazzo. I ragazzi del posto dicono che i suoi proprietari, una volta, possedevano anche il palazzo da 5 piani. Poi gli arresti, il sequestro dei beni e la confisca.

Va così, a Polistena, centro di 11mila anime nel sud della Calabria a due passi dalla piana di Gioia Tauro, Rosarno e San Luca. Mafia e antimafia si fronteggiano lungo un confine sottile, spesso impercettibile, fatto di piccoli segnali, sguardi, mancati saluti. Raramente, minacce. Un confine che, quando lo attraversi, nemmeno te ne accorgi. Basta cambiare marciapiede, entrare in un bar, indossare una maglietta.
Si: se indossi una maglietta rossa, a Polistena, la gente ti riconosce subito. Sarà per il colore vivo, sarà per quella scritta che campeggia sui petti dei ragazzi che la indossano: “E!State Liberi! Campi di lavoro sui terreni confiscati alle mafie 2011”. Tutti la notano. Qualcuno ti sorride. I più ti ignorano. Pochissimi ti squadrano. Gli affari vanno bene lo stesso e questo è quello che conta.

Anche tu, a Polistena, la gente la riconosci subito. Non dagli abiti, non dalla catenina d’oro, non dagli occhiali da sole: a Polistena, la gente la riconosci da come ti guarda. Chi è con te ha gli occhi illuminati di gioia, qualche volte lucidi di emozione. Li conti sulle dita di una mano, forse di due, quando esci la sera. Chi non è con te non è per forza contro. Ti guarda con curiosità. Una curiosità figlia di quell’apatia, di quella rassegnazione, di quell’accettazione più o meno forzata e, raramente, di quell’interesse personale che lo condanna al limbo degli ignavi: la “zona grigia”, vero e proprio cuscinetto sociale tra quei pochi che ti guardano bene e quegli altrettanto pochi che ti squadrano. Vero e proprio freno alla vittoria dell’antimafia. Vera e propria garanzia di successo, impunità e immortalità della mafia.
Anche se stai dalla parte giusta, però, a Polistena con la mafia ci convivi. Antonio – il responsabile del campo – quasi se ne vergogna quando, occhi bassi e voce fioca, te lo racconta. Ci convivi tra i banchi di scuola, quando non ti spieghi perché con alcuni tuoi compagni i professori chiudano sempre un occhio. Quando la tua cooperativa riceve strane proposte di “collaborazione”. Quando il boss del paese ti avvicina al bar per offrirti un caffè. In molti, quel caffè lo accettano. Qualcuno lo rifiuta. Qualcun altro si ribella. E muore.

Peppe Tizian, bancario freddato a colpi di lupara per non aver abbassato la testa di fronte a una pratica in odore di mafia, Gianluca Congiusta, commerciante e amante dello sport, Celestino Fava, suonatore di Sax ucciso a soli ventidue anni, Rocco Gatto, mugnaio di Giosa Jonica iscritto al PCI e ucciso per essersi rifiutato di pagare il pizzo e Lollò Cartisano, fotografo sequestrato e ucciso sui pendii della Locride, in Aspromonte. Proprio tra questi pendii, dove la brutalità dell’uomo non è ancora riuscita ad intaccare la disarmante bellezza della natura, un’emozionate marcia al fianco dei parenti delle vittime tiene viva la memoria: non un punto d’arrivo ma il germoglio di quella’azione e di quell’impegno civile antimafioso da proiettare nel futuro. Scendenendo verso la costa il cartello di San Luca è devastato dai buchi dei proiettili: la conferma di come la lotta alla mafia, qui, sia ancora da cominciare.

A Polistena, invece, ci sono i ragazzi di Don Pino Demasi, il parroco che da decenni tiene alta la bandiera dell’antimafia nella più profonda Calabria. Girano per il paese a testa alta, facendo nomi e cognomi, snocciolando aneddoti, raccontando fatti e personaggi con una profondità analitica inimmaginabile per gente di vent’anni. Li ascolti in silenzio, affascinato dal loro coraggio, incantato dalla loro genuina semplicità, persino imbarazzato e frustrato dall’idea di un possibile confronto tra la tua persona e la loro.
Poi, però, ti rivedi negli sguardi ricchi di speranza e di quel pizzico di sana ingenuità adolescenziale dei tuoi compagni più giovani, ti ritrovi nelle debolezze dei tuoi coetanei, nei loro piccoli e splendidi difetti, nelle loro paure e nei loro sogni. O ancora ti immagini tra vent’anni e speri di conservare intatta l’eccezionale vitalità che i tuoi compagni più grandi hanno saputo custodire. E capisci che, in fondo, non serve essere eroi per essere grandi.

Del resto, lo diceva anche Falcone: “l’antimafia non ha bisogno dell’impegno straordinario di una minoranza eroica, ma l’impegno ordinario di una moltitudine onesta”.


Arrivederci, Calabria.

mercoledì 15 giugno 2011

Troppa democrazia

"Quando ti trovi d'accordo con la maggioranza, è il momento di fermarti a riflettere"
(M. Twain)



Pubblico le interessanti - e da me largamente condivise - riflessioni dell'amico Orlando in merito ai recenti referendum, alla demagogia dei politici di "opposizione" che li hanno cavalcati e all'improvvisa fantomatica capacità di partecipazione politica e responsabilità civile dimostrata dai cittadini italiani, gli stessi che hanno votato il peggior Parlamento della nostra storia repubblicana.
Potete leggere l'articolo anche a questo link.


Troppa democrazia, a volte, può far male. I risultati del referen­dum del 12 e 13 giugno sono stati accolti come il trionfo della par­tecipazione, il superamento dell’apatia nutrita verso la nazione, l’umiliazione dell’inerzia civile, il tripudio della libertà. In realtà mi sembra che i veri vincitori siano stati tre: conformismo, dema­gogia e disinformazione. Già, per ché dei 95% dei “Sì”, solo una trascurabile minoranza proviene da scelte coscienti e consapevoli.

Quando senti ripetere – nelle strade, nei bar, nelle aule universi­tarie – che bisogna andare a votare “Sì” contro il nucleare perevitare una Chernobyl italiana; quando continui a sentire che è dove rosorecarsi ai seggi perevitare che la proprietà dell’acqua, da pubblica, diventi privata; quando ti raccontano che senza quo­rum l’Italia si ritroverebbe senza futuro, allora, finalmente, capi sciche indire questi referendum è stato un grosso errore.

Colpa dei media? Solo in parte. Qualche quotidiano ha provato a spiegare decentemente quali erano i punti che i referendum volevano abrogare. Ma si sa quanto sia di nicchia il pubblico della cartastampata. La televisione poi, nono stante le sue enormi potenzialità divulgative, ha abdicato senza troppi crucci alla propria funzione informativa.

Molti sostengono che l’affluenza ai seggi sia stata così elevata grazie a Facebook, che ha informato milioni di ragazzi – e, di conseguenza, le loro famiglie – spronandoli al voto. E non aggiungono, alla fine della frase, nean che un “purtroppo”. Può dirsi serio un Paese che affida ai social net work l’informazione su questioni quali il proprio destino energetico o la liberalizzazione dei servizi idrici? Facebook non pone alcun freno alla demagogia, anzi, diventa il cavallo sul quale il populismo può galoppare a spron battuto. Ciò dovrebbe destare allarme e invece non si fa che altro che tesserne le lodi.

Ma il problema di fondo non è l’informazione. È l’idea stessa che un referendum si possa occupare di questioni così tecniche. La domanda è: come possono camerieri, casalinghe, operai, macellai, parrucchieri, bidelli, postini, com­messi, spazzini, atleti, balle rini, pompieri, pizzaioli, bagnini, deliberare suquestioni come quella dell’acqua? Nessuno dubita della loro intelligenza, ma credo sia dove roso essere scettici sulle loro competenze in merito a municipaliz­zate, remunerazioni di capitali o liberalizzazioni in generale. Lo stesso discorso vale anche per artisti, maestri, attori, filosofi, scrittori, poeti, cantanti, medici, studenti universitari.

Su questioni di principio, etiche, ideali, ognuno può farsi la propria opinione ed è giusto che una popolazione sia interpellata ed abbia il potere di cambiare le cose. Ma su questioni complesse e ad elevato tasso di tecnicità, servono competenze altrettanto rilevanti.

I politici dovrebbero saper prendere decisioni che possono non piacere al popolo, ma lungimiranti e utili alla nazione. Un bambino non deciderà mai, di suaspontanea volontà, di prendere una medicina. Perché ne ignora i benefici futuri. Non è una colpa la sua, anzi. Piuttosto, sarebbe grave se i genitori assecondassero i suoi capricci e le sue lacrime disperate. Il bravo genitore deve sapere fare ciò che è giusto per il figlio, non ciò che gli piace.

Le élites poli ti che servono proprio a questo. Questo è il senso della democrazia rappresentativa. Ma se non con­vince, si può sempre ripiegare su Facebook e affidarsi ai “mi piace” cliccati dai cittadini-virtuali.


Tanti auguri.

domenica 22 maggio 2011

El pueblo (p)unido jamas será vencido!

"In ogni caso, la causa della rivolta è l’ineguaglianza"

(Aristotele)



Francis Fukuyama. Cosa potrebbe mai partorire di buono la mente di un uomo con un nome da avvocato appena uscito da Harvard e un cognome da centro massaggi thailandese?

No, non è il rancore per il votaccio che il suo saggio “The end of history” mi fece prendere qualche anno addietro. Quella è acqua passata e il caro vecchio Francis, con il suo faccione a metà tra un Jonny Chan invecchiato e l’Alvaro Vitali dei tempi migliori (vedere per credere), iniziava quasi a diventarmi simpatico.
La vera ragione del mio risentimento nei confronti del nippoamericano di orientamento “neocon” – pittoresca espressione con la quale gli analisti usano descrivere quella gloriosa stirpe di presidenti americani che scambiava il mandato conferitogli dagli elettori con una libertà pressoché illimitata di bombardare tutto ciò che si trovava al di là del 14° meridiano – risiede in una semplice constatazione: Fukuyama ha clamorosamente sbagliato. Quindi, tecnicamente, la risposta che diedi a quell’esame sarebbe da rivalutare. Voglio dire: ci sarà pure una differenza tra il non capire una teoria corretta e non capirne una palesemente sballata.

Ok, vi sto facendo perdere quei preziosi due minuti di tempo che vi siete ritagliati tra una puntata di "Che tempo che fa" e un appello di Saviano su Repubblica. Rientro in tema.

La teoria di Fukuyama, dicevamo. Ebbene nel suo “The end of History” del 1989 e nella riedizione aggiornata del 1992 “The end of History and the last man”, l’analista sostiene che il mondo post-comunista si divida sostanzialmente in due categorie: una prima categoria composta da tutti quegli stati (occidentali) in cui la democrazia liberale e il libero mercato sono una garanzia assoluta del benessere, della prosperità e del rispetto dei diritti umani all’interno delle popolazioni che li abitano. Questi stati avrebbero raggiunto il grado massimo di sviluppo, progresso e “maturità”. Uno stadio di evoluzione e benessere che li proietta “al di fuori della storia”, intesa come quella condizione in cui guerre e conflitti conservano la loro natura di principale strumento per la risoluzione delle controversie internazionali.
La seconda categoria composta da tutti quegli stati che, rigettando i dettami dell'economia di mercato, rimarranno “impantanati nella storia”, esprimendo nei continui conflitti la loro dimensione di arretratezza.

Per convincervi di come questa prospettiva abbia completamente fallito avete tre modi: aprire gli occhi (o accendere la televisione ad una qualsiasi ora e su un qualsiasi canale, o leggere “il Riformista”, o andare su google e vedere che cosa vi esce digitando “Ministro delle Riforme per il Federalismo”), chiedere ai cittadini dell’isola di Granada, di Belgrado, di Bagdad, di Tripoli e di Mogadiscio che cosa ne pensino del neo-acquisito pacifismo occidentale e farvi un giro in Puerta del Sol, Madrid, Spagna.

Qui, da ormai una settimana, migliaia di giovani precari (espressione ormai ridondante), studenti, lavoratori e persino mamme con bimbi al seguito hanno indetto un presidio permanente, silenzioso e pacifico contro il sistema sociale, economico e politico generato dal libero mercato tanto caro a Fukuyama.

Che cosa chiedono queste migliaia di “persone qualunque” – che da noi sarebbero già state tacciate di estremismo, di amicizie con pericolosi terroristi, di furti di auto, di aver barato alla tombola del natale ’84; insomma tutte quelle accuse con cui i nostri sindaci donne milanesi il cui cognome inizia per Moratti controbattono brillantemente a chi gli fa notare che nelle loro liste ci sono persone in contatto con esponenti della ‘ndrangheta e che pure al tipetto basso dal cranio bitumato il cui nome campeggia in bella mostra sui loro manifesti elettorali si è dimostrato molto ospitale con insospettabili stallieri siciliani – ?

Chiedono che il mito del progresso non venga più unicamente declinato nell’ottusa accezione di crescita economica – di cui beneficerebbe sempre e comunque il manipolo di affaristi che manovra l’economia – ma che venga perseguito nella più ampia e autentica accezione del suo significato: un “progresso umano” basato su di uno “sviluppo sostenibile”, su di un sistema di welfare egualitario e solidale. E che, udite udite, abbia come fine ultimo la felicità delle persone e non “l’accumulazione di soldi senza riguardo per il benessere della società”, che fino a ora ha creato solamente una massa di “consumatori infelici”.

Le proposte per uscire da questo pantano riguardano l’eliminazione dei privilegi della classe politica, le misure contro la disoccupazione e l’aumento dei salari minimi, le politiche per il diritto alla casa, l’aumento delle imposte per le grandi banche e la lotta alla corruzione in tutte le sue possibili forme. Insomma, un sistema che chiede una nuova democrazia, una “Democrazia reale” e realmente partecipativa e inclusiva.

Utopie? Forse, ma un tale, negli anni ’60, diceva che “sono le grandi utopie a muovere i grandi ideali della storia”.



Questo tale - si capisce - non era Francis Fukuyama.

martedì 3 maggio 2011

U.S.A.ma Bin Laden

La storia sono fatti che finiscono col diventare leggenda; le leggende sono bugie che finiscono col diventare storia
(Jean Cocteau)



Ammettetelo: siete felici. O almeno sollevati. Ora che Bin Laden è morto non dovrete più spiegazioni al poliziotto di turno che, aprendovi la valigia per requisirvi lo shampoo, vi chieda conto di quelle manette e di quel frustino. “No, non sono un fuggitivo e nemmeno un fantino!”.

Se vi siete ritrovati nella descrizione di queste prime righe, questo blog – o almeno questo articolo – non fa per voi. Non per via del frustino, sia chiaro. E nemmeno delle manette. Quanto perché chi vi scrive ha ormai sviluppato una sorta di scetticismo preventivo ogniqualvolta sente tirare in ballo l’argomento Bin Laden-terrorismo islamico-11 settembre – e non solo, direte voi (maligni).

Per oggi, tuttavia, farò un’eccezione. Sarà l’aria di primavera, la beatificazione di Papa Giovanni Paolo II o quella pillola blu che un tizio basso e truccato incontrato l’altro giorno ad Arcore mi ha regalato. Fatto sta che in questi giorni sono proprio di ottimo umore.
Dunque, acconsentirò di buon grado a vestire i panni dell’americano medio – che, in questi casi, non è altro che l’italiano medio con qualche chilo in più sui fianchi e nel cesto dei pop corn – , agli occhi del quale i macroscopici buchi-incoongruenze-menzogne della versione ufficiale dell’11 settembre – che persino un Sallusti qualunque farebbe fatica ad accreditare – e i decennali e documentati rapporti che la famiglia Bin Laden intratteneva con la famiglia Bush prima durante e dopo i famigerati attentati sono semplici scherzi del destino. Fugherò i numerosi dubbi relativa alla stessa esistenza storico-politica del barbuto terrorista saudita e ignorerò persino il goffo lavoro di photo editing con cui si è cercata di dimostrare l’avvenuta morte di Bin Laden, prontamente confermata dai membri di Al Quaeda - anche loro, a quanto pare, amanti del sadomasochismo da manette e frustino.

Ebbene, ingoiate acriticamente tutte queste originali storielle, il bilancio di 10 anni di quella guerra al terrore (no, Bossi, ho detto terrore!), che oggi sembra aver trovato la sua degna conclusione, è il seguente. Per difendersi da un attacco terroristico – che, per quanto cruento e spettacolare, fece 2974 morti e 24 dispersi – e portare la pace, i diritti umani, la democrazia, la prosperità e il benessere nei territori governati dai fondamentalisti, gli Stai Uniti d’America e i suoi fedeli alleati occidentali hanno:

- Attaccato due stati sovrani – Afghanistan e Iraq – che, in precedenza, avevano finanziato e supportato anche militarmente;
- Ucciso tra gli 80 e i 100mila civili – anche se una ricerca della Scuola medica Bloomberg dell’Università Johns Hopkins ha stimato ben 601.027 vittime civili nel solo Iraq;
- Torturato e detenuto illegalmente prigionieri stranieri, nonchè violato i più elementari diritti umani;
- Compiuto un’operazione militare in territorio straniero senza informare lo stato in questione (il Pakistan), in spregio a tutte le norme internazionali;
- Insediato un presidente fantoccio (Karzai), il cui fratello è da almeno 8 anni a libro paga della CIA, e fatto impiccare l’altro (Saddam), ormai sgradito;
- Speso oltre 3mila miliardi di dollari – per capire l’entità di questa cifra basti pensare che con circa 20 milioni di dollari, meno della metà di quanto l’Italia spende mensilmente per la guerra in Afghanistan, Emergency ha costruito tre centri chirurgici, un centro di maternità, 28 ambulatori e curato oltre due milioni e mezzo di afgani.

Il tutto per uccidere un uomo – descritto più o meno come un cavernicolo, lo stadio evolutivo immediatamente successivo a quello di un leghista – e il suo manipolo di fedeli.
Il tutto nella singolare convinzione che buttare tonnellate di piombo sulla popolazione di quegli stessi stati islamici che erano considerati dei potenziali focolai del fondamentalismo islamico, aiutasse a invertire la presunta propensione antioccidentale degli stessi abitanti – “Ehi ragazzi, non ci vedete? Noi siamo i buoni!” – e diminuisse in questo modo il pericolo di attentati da parte di cellule terroristiche arabe.

Eppure, nei 10 anni post-undici settembre, delle centinaia di migliaia di fantomatici arabi pazzoidi convinti che sacrificare le proprie membra spappolate all’altare del dio di turno fosse l’unico modo per redimere questo mondo infame (o almeno una parte di esso), sono stati solamente 7 quelli che si sono fatti saltare in aria (i 4 degli attentati nella metropolitana londinese e i 3 degli attentati a Sharm el Sheikh).
Eppure, per anni, dei brividi vi hanno percorso la schiena ogni qualvolta una faccia olivastra, magari anche barbuta, faceva capolino nel vostro vagone della metropolitana. E no, non era per via dell’alito.

Mentre quando vi accalcavate fuori dalle farmacie per comprare i vaccini anti sars – e se non voi i vostri genitori o comunque qualcuno in cui riponete un minimo di stima e fiducia (si, anche se leghista!) – eravate convinti di allungare la vostra speranza di vita. Che, invece, si abbassava. Soprattutto se eravate tra quelle decine di bambini giapponesi morti in seguito all’assunzione del vaccino stesso, la cui efficacia, ironia della sorte, era completamente sconosciuta (e comunque ininfluente: non ci fu un solo caso di trasmissione del virus uomo a uomo e in Vietnam, il paese più colpito dalla Sars, morirono in tutto 42 persone in due anni). Tutto questo perché gli USA di George Bush, seguiti a ruota dai paesi UE, spesero 7,1 miliardi di dollari nell’acquisto di nuovi vaccini anti-sars e nel supporto alla ricerca delle grandi case farmaceutiche, garantendo a queste ultime l’immunità legale per gli eventuali danni collaterali provocati sui pazienti dagli stessi farmaci.


Ma non chiamateli terroristi.

martedì 26 aprile 2011

Auguri libertà! Ci manchi?

Dietro ogni articolo della Costituzione, o giovani, dovete vedere altri giovani come voi che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta
(P. Calamandrei)


No, il 25 aprile non è la festa di tutti. Affermare il contrario suonerebbe come un’offesa nei confronti delle migliaia di partigiani che, con il loro sangue, hanno issato la bandiera della libertà e della giustizia, scolpendola nelle pagine della nostra Costituzione.

La stessa Costituzione che, poco più di 60 anni dopo, viene quotidianamente minacciata – dove non esplicitamente violata e violentata – da figurine di partiti – chiamarli uomini sarebbe troppo – che il concetto di “libertà” l’hanno solo nel nome.
Parlo del Ministro della Difesa Ignazio La Russa, sommerso di fischi mentre cercava di catechizzarci – probabilmente per motivi di legittima difesa – sull’opportunità di “seppellire le ferite del passato”.
Parlo del Presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, figlio di quell’Emilio Formigoni che, da Comandante delle Brigate Nere di Missaglia, si rese responsabile della strage fascista di Valaperta, oltre che di sevizie, rastrellamenti e ritorsioni in tutto il territorio brianzolo. Il figlio ne ha sempre lodato l’esempio.
O ancora di quella folta schiera di neo-fascisti e berlusconiani neo-redenti (da entrambi i regimi) che si raccoglie sotto il nome di Futuro e Libertà, o di tutti coloro che ogni 25 aprile tirano in ballo i massacri delle foibe, che con la lotta partigiana italiana non c’entrano praticamente nulla – anzi: numerosi sono gli esponenti antifascisti del Comitato di Liberazione Nazionale uccisi dai partigiani jugoslavi di Tito.

Per dirla tutta, la buttano in politica anche quel discreto numero di antifascisti che, ogni anno, animano lo stridente dibattito sui meriti della lotta di liberazione, rileggendo quello che è stato un grande movimento di ribellione anti-dittatoriale con le lenti della politica. Dimenticando che quei volti scavati dalla fame e dalle fatica, quei corpi crivellati dai proiettili delle rappresaglie nemiche, quegli scarponi consumati, non marciavano sulle montagne in direzione di un simbolo di partito, ma verso il più nobile degli orizzonti: quello della libertà.
A dispetto del suo colore, insomma, il sangue che i partigiani sacrificarono nelle piazze, nelle carceri e nelle campagne a partire da molto prima dell’occupazione nazifascista è allo stesso tempo il figlio di questa irrefrenabile e romantica pulsione pre-politica e il padre della nostra Costituzione.

Il 25 aprile, dunque, non è la festa di tutti, ma la festa di “tutti quelli che”. Che si riconoscono in quei valori della resistenza ancora vivi nella nostra Costituzione. Che vedono nella libertà, nella giustizia e nell’uguaglianza tra gli uomini i binari fondamentali lungo i quali spingere il treno del nostro futuro. Che pensano, che agiscono e che – all’occorrenza – reagiscono a qualsiasi forza spinga in senso contrario a questi fulgidi orizzonti.
E’ la festa di tutti quelli che si battono ogni giorno contro i nuovi fascismi: la mafia, una cultura dominante che sembra avere come unica bussola uno sviluppo sempre più cieco, ottuso e dannoso e un’accumulazione sempre più bulimica di ricchezza materiale, una televisione che coltiva a piene mani mediocrità e inettitudine, spacciandole per modelli culturali a cui la società – ormai concepita come un’inanimata variabile dipendente – deve tendere.

Tutti quelli, insomma, che da partigiani vivono.
Tutti quelli che, come Antonio Gramsci e Giacomo Matteotti, Carlo Rosselli e Placido Rizzotto, Pio La Torre e Giorgio Ambrosoli, Paolo Borsellino e Vittorio Arrigoni,


da partigiani sono ancora disposti a morire.

domenica 17 aprile 2011

Recitare Alda sull'EMME2

"In una simile epoca, forse è la follia la condizione di ogni autenticità"
(K. Jaspers)


Leggere una poesia. Ad alta voce. Nell’ora di punta di un venerdì di inizio primavera. In una vagone della metropolitana. Infrangere quella grigia gabbia fatta di conformismo, monotonia e solitudine, dentro la quale crediamo di sentirci – e, forse, davvero ci sentiamo – al riparo dall’angosciante varietà del mondo esterno. Sbattere in faccia alle persone i loro stessi pregiudizi, figli di una società in cui una sempre più banalizzante normalità viene coltivata a piene mani e la “diversità”, in tutte le sue possibili manifestazioni, guardata con diffidenza, dove non apertamente avversata.
Martina, con un’abilità narrativa e descrittiva che fa arrossire di invidia questo blog (e il sottoscritto), racconta il suo recente esperimento “sociologico”, offrendo numerosi e interessantissimi elementi di riflessione.
Dunque, a lei (che ringrazio) la penna.


Premessa e riflessioni: Un compito non facile. Riconosco, a me stessa e agli altri, che fare i conti con il proprio (imposto?) senso di vergogna è stata una sfida in parte sottovalutata. Credevo, non appena ricevuta la consegna dell'esercizio, che sarei riuscita a svolgerlo la sera stessa; invece questa convinzione istintiva si è trasformata in un percorso intenso ed elettrizzante di intimi dialoghi tesi a spronarmi, a smontare le giustificazioni che trovavo per rimandare, a fornirmi motivazione. Ho dubitato pochissimo nella scelta di quale poesia recitare. Indecisa all'inizio, ho poi optato per un testo a cui sono molto legata, sia emotivamente che intellettualmente: una delle tante meravigliose, appassionate e tormentate dichiarazioni d'amore all'Amore scritte da Alda Merini. “Mi sono innamorata/ delle mie stesse ali d'angelo,/ delle mie nari che succhiano la notte,/ mi sono innamorata di me e dei miei tormenti./ Un erpice che scava dentro le cose,/ o forse fatta donzella/ ho perso le mie sembianze./ Come sei nudo, amore,/ nudo e senza difesa:/ io sono la vera cetra/ che ti colpisce nel petto/ e ti dà larga resa”. Ho scelto questa autrice per una ragione ben precisa. Oltre alla bellezza e alla vorticosa pienezza delle sue parole, Alda Merini è una donna che per tutta la sua vita ha sorriso (e deriso) in faccia agli stereotipi, alle etichette; ha sfidato, talvolta inconsciamente, il senso comune e specialmente il pubblico pudore vivendo e raccontando di amori passionali caratterizzati da una carnalità spinta all'estremo. È una donna, per riassumere, che ha sempre avuto il coraggio di non avere vergogna di sé, delle proprie emozioni e percezioni, del suo essere immensa e indefinibile. Proprio questo coraggio di non avere vergogna, se intendiamo la vergogna come il risultato di una costruzione sociale volta a normalizzare e controllare ogni fenomeno, è ciò che più mi ha ispirato. Se inizialmente, più volte, mi sono scoperta a improvvisare giustificazioni per il fiato corto e la voce che non usciva (“questo vagone è inadeguato, troppo grande, troppo dispersivo, troppa poca gente” o ancora, “ no, la voce elettronica che annuncia le fermate confonde, non va bene”, ed altre ragioni assolutamente pretestuose) la svolta è stata trasporre questo esercizio sul piano della sfida: sfida con me stessa sì, ma soprattutto sfida tra me e la società nel suo complesso. La volontà di abbattere il muro della vergogna, il non voler accettare il modus diffuso e diffusivo per cui una persona non legge una poesia su una metropolitana alle 20.30 di un venerdì sera qualunque. Perché non posso?, mi sono domandata. Al di là delle logiche che appartengono alla sfera della convivenza civile e reciprocamente rispettosa (se tutti urlassero, cantassero, declamassero versi, i luoghi pubblici sarebbero invivibili), io voglio sentirmi nella posizione di poter decidere se e come e quando commettere una precisa azione: più probabile che tenderò a non recare disturbo agli altri, ma sta al mio buon senso, alla mia razionalità, scegliere se muovermi in direzione di un comportamento socialmente dirompente o, al contrario, non urtare l'ordinarietà; ma partendo da un presupposto altamente significativo e centrale: la personale percezione della potenziale libertà di scegliere.

La scena e le reazioni: Metropolitana, linea verde. Sono le 20.30, ora di rientro per i più, quando salgo sul vagone. Non cerco un posto a sedere, come è mio solito, ma resto in piedi un po' defilata per osservare l'ambiente, familiarizzarci, aspettare di avvertire la sensazione propulsiva. Lascio che il treno consumi un paio di fermate, inspiro, respiro ed esclamo, a voce altissima per coprire i rumori dei binari, il primo verso. Stringo il libro nella mano destra che lo impugna ma mi guardo intorno per poter incontrare gli occhi dei presenti che si sollevano e si spalancano. Ad intermittenza rivolgo la mia visuale al libro e alle persone, macino fino alla fine tutti i versi, alzo nuovamente lo sguardo, sorrido (o forse rido, addirittura) e vado a sedermi cercando un posto che non mi precluda la visione di un angolo del vagone. Le reazioni che raccolgo sono le più disparate ma non del tutto imprevedibili. Una ragazza, seduta affianco a me, si complimenta per il coraggio e per la mia bravura, dice: “Bella!”. Mi viene spontaneo chiederle se si fosse domandata il senso della mia azione e lei, in piena sincerità, mi risponde di aver creduto che si trattasse di un esercizio per un corso di recitazione perché “eri sicura, brava e sorridevi tanto mentre leggevi!”. Vorrei continuare a parlare con lei che così sinceramente ha sospeso il giudizio ed ha voluto entrare in contatto con me ma è arrivata alla sua fermata. Si alza in fretta, mi saluta con la mano e mi ringrazia per quel momento. Un'altra ragazza, più timidamente, mi chiede solamente se fossi io l'autrice di quella poesia. Si congratula per il coraggio ma è evidente che non intenda parlare, lo avverto dal fatto che per esempio non mi avvicina ma mi parla restando a due sedute di distanza da me. Ci scambiamo un sorriso finale e il nostro dialogo si esaurisce fino a che, arrivata a destinazione, mi saluta con un cenno. C'è poi una signora, seduta al fondo del vagone, che mi osserva fissamente dal primo istante, prima ancora dell'azione. Non so cosa esattamente abbia attirato e fatto permanere la sua attenzione, me lo chiedo ma non trovo risposta (forse è la più scontata: il mio “apparire” non esattamente confondibile, diciamo così, ma mi sembra riduttivo limitarsi all'abbigliamento; c'è altro, che non capisco, nel suo modo di guardarmi). Solo dopo la lettura, i suoi occhi hanno cominciato a spostarsi ad intervalli da me alla mia mano che appuntava e viceversa; ed in questo modo per tutto il viaggio (circa mezz'ora!). Uno sguardo davvero complesso da decifrare, il suo: interrogativo ma non particolarmente curioso, rigido, un po' cupo ma non severo, né una volontà di comprensione né un giudizio affrettato, ma neanche indifferenza, altrimenti non avrebbe indugiato tanto a lungo su di me. Infine le altre reazioni raccolte, che sono invece più composte: chi ridacchia all'irrompere della mia voce inaspettata sulla scena, chi mi guarda (o meglio, fulmina) con fare quasi infastidito come se abbia costituito motivo di interruzione o distrazione, chi addirittura, parlando al telefono mentre recito, proferisce sottovoce ma con aria palesemente stizzita queste parole: “ Ehi, c'è una pazza in metro che legge e urla, non ti sento...ripeti, per favore!”. Chi, infine, solleva lo sguardo un istante solo all'inizio ma poi riduce a zero il suo sforzo di interpretare la situazione, di attribuirle un senso più o meno articolato che non sia una sorta di disinteressato “...guarda et passa...”, per poi ovviamente rituffarsi nell'i-phone che maneggiava prima dell'interruzione, nel portatile per ultimare il lavoro tralasciato, nel proprio romanzo, banalmente nella propria comoda ed inviolabile ordinarietà. Arrivo alla mia fermata. Mi sento felice, grintosa, liberata da un immane senso di vergogna e spogliata da quella inibizione paralizzante. Penso che vorrei rifarlo, ripenso a quanto liberatorio sia stato e mi convinco che lo rifarò. Ricorrerò a questa scarica energizzante di forza quando mi sentirò di nuovo abbattuta, triste, turbata, proprio come il giorno in cui l'ho fatto per la prima volta, con nel cuore il dolore per la morte di Vittorio. Vittorio Arrigoni.


Martina Mazzeo, 15/04/2011.

venerdì 1 aprile 2011

Deja-vu(lnus) satirico


Berlusconi, a volte, le azzecca. Perché le dice tutte
(G. Sartori)


L’altro giorno ho avuto un deja-vu. Proprio così: quell’inspiegabile combinazione di eventi e coincidenze che ti fa provare la strana sensazione di essere nel bel mezzo di una situazione o esperienza già vissuta in passato, mi ha percorso le membra, scuotendomi dalla testa ai piedi – non un grande tragitto, lo so.

Eravamo a cavallo tra la seconda metà degli anni ’80 e la prima metà degli anni ’90 quando un tondeggiante signore milanese, amante della bella vita – era un frequentatore abituale delle più note bische della “Milano da Bere” – e delle belle donne – alla sua amante Anja Pieroni regalò addirittura una casa, un’albergo e un canale televisivo – intratteneva cordiali e rapporti con un sanguinario dittatore libico che, quando non faceva massacrare e torturare centinaia di oppositori politici nelle carceri, predicava austerità, con il solo intento di rendere meno indigesta al suo popolo la situazione di indigenza e povertà a cui lo aveva condannato. L’amicizia tra i due era tale che, saputo della volontà americana di bombardare la residenza del dittatore, il paffuto signore milanese nonché Presidente del Consiglio dei Ministri italiano di allora, si precipitò ad avvisare il suo sodale, salvandogli la vita.

Qualche anno dopo, travolto da una mezza dozzina di scandali politico-giudiziari e preso letteralmente a monetine in faccia – insieme a buona parte dei parlamentari di allora – da una folla inferocita di elettori che gli chiedevano conto delle sue malefatte, scappò in Tunisia per evitare di finire in gattabuia.

Vent’anni dopo sento parlare di un tarchiato signore milanese – anch’egli Presidente del Consiglio, anch’egli amante della bella vita e delle belle donne, anch’egli al centro di numerosi scandali politico-economico-sessual-giudiziari – duramente contestato da una folla inferocita di elettori che gli chiedono conto delle sue malefatte, nonchè di un fitto lancio di monetine davanti al Parlamento.

Preoccupato dall’ipotesi di trovarmi vittima di una traslazione spazio-temporale, scopro che il cicciotto signore milanese si sta per recare in Tunisia. Ormai sconsolato, mi appiglio all’ultima speranza e guardo in direzione del cielo libico: niente da fare. Ancora bombe su Tripoli e faccione del riccioluto dittatore, che con i suoi deliranti monologhi cerca in tutti i modi di avvalorare le tesi di Lombroso, ancora in televisione. Nessuno stupore, dunque, quando apprendo che i due – il paffuto milanese e il dittatore – sono grandi amici che, in un recente passato, hanno condiviso tutto – ma proprio tutto, a quanto sembra.

E, invece, proprio quando ho ormai deciso di recarmi a Chernobyl per vedere coi miei occhi l’esplosione del reattore numero quattro – ebbene sì: allora, nel 1986, queste cose succedevano ancora – scopro l’imponderabile: il dittatore libico è si lo stesso di 25 anni fa, ma i due milanesotti sono due persone diverse. Uno è morto ed è in stato di decomposizione. L’altro, pur essendo in evidente stato di decomposizione, è ancora vivo e vegeto. Oltre a questa sostanziale differenza, Bettino Craxi e Silvio Berlusconi differiscono per altre due caratteristiche. La prima è che il primo portava gli occhiali, la seconda è che il primo, nel bene (poco) e nel male (molto) era un politico. Il secondo non lo è.

Se lo fosse, infatti, oggi voi non leggereste questa noiosa storiella del deja-vu, ma una più brillante rivisitazione in chiave satirica delle proposte avanzate dal nostro premier per risolvere l’ “emergenza Lampedusa” – che di emergenziale, per la verità, ha ben poco, essendo stata preventivata da oltre due mesi e in scala assai maggiore (lo so: sono uno dei pochi che dà ancora retta alle cifre sparacchiate da Maroni).

Fare satira politica, però, vuol dire prendere personaggi vagamente seri e credibili, esaminarne le affermazioni – che necessitano anch’esse del requisito della credibilità, oltre a quelli della verosimiglianza e, almeno in una qualche misura, della rispettabilità – e dileggiarle, ottenendo così un’immagine caricaturale del soggetto in questione e delle relative esternazioni. E’ proprio per tutti questi motivi che nessuno farebbe mai satira su di un pazzo mitomane.

Mi volete spiegare, allora, come potrei dileggiare un personaggio che spaccia per soluzioni a una crisi umanitaria di dimensioni epocali il fatto di “aver comprato una casa a Lampedusa”, di voler istituire una “moratoria bancaria e fiscale” per gli abitanti dell’isola e di “aprire un’impresa di commercio del pesce”, più di quanto già non facciano le sue stesse affermazioni? Potrei magari ribattere in tono ironico: “bravo Silvio! E perché non costruisci un campo da golf?”, ma l’ha già detto lui. Allora potrei provare con un “Si! Vogliamo anche il nobel per la pace ai lampedusani!”, ma anche qui arriverei in ritardo. “Costruisci un casinò!”: già detta anche questa.

Se proprio vogliamo sorridere, allora, dobbiamo immaginarci un premier (magari non coinvolto in una ventina di processi che vanno da mafia a traffico di droga, da strage a corruzione) che, sbarcato sull’isola ben prima che le ondate di migranti la sommergessero – per la felicità dei leghisti, che oggi hanno finalmente qualcosa su cui ruttare (chiedo scusa, parlare) – , rassicurasse la popolazione lampedusana, esponendo un piano preventivo di accoglienza e smistamento dei migranti e precisando in anticipo che, nel caso in cui la situazione dovesse degenerare, lui si prenderebbe tutte le responsabilità politiche del fallimento del piano, dimettendosi immediatamente. Questa si, sarebbe vera satira.


L’unica satira che ci è rimasta.

sabato 19 marzo 2011

Inutilità d’Italia

L’Italia è un’espressione geografica
(K. von Metternich)

Chiamatelo pure cinismo, ignoranza o superficialità, ma io, il 17 marzo, non ho proprio capito che cosa diavolo si sia festeggiato.

Mi dicono che era l’anniversario dei 150 anni dalla nascita dell’Italia unita. “Embè?”, mi verrebbe da rispondere.
Tralasciamo il paradosso per cui la Sardegna, dal cui regno l’Italia deriva, è oggi la più secessioniste tra le regioni italiane – e, a guardare la latrina politico-economico-morale in cui una cricca di spregiudicati arrivisti sta facendo sprofondare il belpase, non le si può certo dare torto.
Tralasciamo pure il patetico teatrino del “festa nazionale si” – “festa nazionale no”, risoltosi in una sterile baruffa tra nostalgici del ventennio e industriali che blaterano di incalcolabili contraccolpi sulla produttività e sull’economia in un’annata in cui, peraltro, 25 aprile e 1° maggio cadono in giorni festivi (per la gioia di molti?).

Ebbene: perché dovrei festeggiare? Forse perché 150 è un multiplo di 5? O perché è un multiplo di 10? Lo è anche di 15, a pensarci bene. Ed è pure la metà di 300. Niente male come significato simbolico! E dire che il superficiale ero io…
E ancora: perché dovrei celebrare l'Unità? Voglio dire: è “unita” ’Italia che ha schiavizzato e colonizzato mezza Africa. E’ “unita”l’Italia che si è resa complice del più grande e infame genocidio che la storia ricordi. E’ “unita” (o meglio: è proprio da quando è unita) l’Italia che ha accolto e fatto germogliare nel suo grembo il seme delle più potenti e pervasive organizzazioni criminali del mondo. E ancora: è “unita” l’Italia che si è indebitata fino all’orlo del collasso (ma “ci stiamo lavorando”, sembrano dirci i nostri amati banchieri e politicanti) ed è “unita” l’Italia che ha mandato a morire i propri soldati in nome del nulla, affamato i propri abitanti e cancellato il futuro di intere generazioni.

Ma soprattutto: che cosa dovrei festeggiare? “L’orgoglio di una nazione che ha dato i natali a Cavour e Mazzini, a Dante e Petrarca, a Fellini e Benigni!” mi sento ripetere ossessivamente in questi giorni.
Ora: che il semplice fatto di essere nato all’interno della stessa giurisdizione di un’altra persona, per quanto virtuosa e stimabile, trasferisca per osmosi analoghe doti e virtù a tutti gli abitanti di quella stessa giurisdizione mi sembra una teoria già parecchio stramba (e, per certi versi, pure offensiva: i vari Dell’Utri, Scilipoti, Mussolini e Bossi son pur sempre nati sul suolo italico): il fatto di condividere con Benigni e Fellini le stesse 8 lettere a fianco della voce “nazionalità” della carta d’identità non mi rende certo un uomo migliore, così come abitare nella stessa via di un prete non mi provocherebbe improvvisi e irrefrenabili raptus pedofili (si scherza, Padre!).

E nemmeno ho mai particolarmente amato e interiorizzato i concetti di patria e nazione. Forse perché, dietro di essi, ho sempre visto celarsi la dicotomia interno/straniero, e con essa i germi della discriminazione tra gli uomini e della contrapposizione amico/nemico che, oltre ad essere categorie particolarmente insopportabili in sé, sono state storicamente foriere di odio e violenza.
O, forse, perché in una vera nazione, a ben vedere, credo di non aver mai vissuto.
Qual è, in cosa si contraddistingue, da cos’è legato quel “popolo” italiano con cui molti, in questi giorni, si riempiono la bocca? Dal “gli immigrati a casa loro!” dei (neo)fascisti?
Dov’è la solidarietà che dovrebbe contraddistinguerlo? Nelle farneticanti accuse leghiste ai terremotati dell’Aquila?
Dove sta l’amore per la propria terra e per il futuro dei propri figli? Nella spregiudicatezza con cui i ricchi industriali del nord pagano la Camorra per smaltire a prezzi stracciati i propri rifiuti tossici, avvelenando intere regioni e svendendone il futuro per poche migliaia di euro? O nell’energia nucleare che esperti e scienziati ci spacciano come la soluzione del futuro?

Guardiamoci. Abbiamo visto e sopportato di tutto: povertà, guerre, catastrofi naturali, scandali di ogni tipo, stragi di stato. Siamo sopravvissuti al fascismo – grazie ad uno dei pochi sussulti di orgoglio della nostra storia – e al terrorismo, ma siamo in grado di sentirci veramente uniti soltanto durante le partite della nazionale.
Intenti come siamo a badare sempre e solo al nostro caro piccolo orticello, non muoviamo un dito di fronte allo spaventoso intreccio economico-politico-mafioso che ci sta sfilando il futuro dalle nostre mani. La prova? Una conversazione intercettata tra un boss della ‘Ndrangheta e il suo giovane erede:
“ricordati che il mondo si divide in due: ciò che è Calabria e ciò che lo diventerà”.


Questa si che è Unità.

martedì 1 marzo 2011

Sangue è bello?

Dolore è più dolor, se tace
(G. Pascoli)


Ebbene si: sono d’accordo con il “Giornale”.
Il quotidiano di Via Negri è l’unico dei primi 10 quotidiani generalisti italiani a non aprire - oggi, domenica 27 febbraio – con la notizia del ritrovamento del cadavere di Yara Gambirasio, la ragazzina misteriosamente scomparsa 3 mesi fa nella bergamasca.

Certo, ammetto che l’intervista al Cardinale Bagnasco e l’editoriale-fiume di Giuliano Ferrara – che coprono quasi interamente la prima pagina del “Giornale” – possano dissuadere i più ad avventurarsi oltre nella lettura del quotidiano. Ma piuttosto che sorbirsi l’ennesima rappresentazione pornografica della tragedia o vedere la foto senza veli dell’avversario di turno del padrone (tale Silvio Berlusconi), questo ed altro!
Dunque, almeno per oggi, teniamoci strette le acute riflessioni del Giulianone nazionale – che ci ricorda come il grande errore di Napolitano fu quello di contribuire all’abolizione dell’immunità parlamentare – e ammiriamo in religioso silenzio le acrobazie lessicali con le quali il Cardinale Bagnasco riesce a dimostrarci come i macroscopici ed inquietanti risvolti politici, etici, giudiziari ed istituzionali del caso Ruby, in realtà, altro non siano che la dimostrazione di una “fibrillazione politica ed istituzionale che non avvantaggia la società e rischia di creare un clima avvelenato che rende insicuri e, alla lunga, intolleranti”. Guai!

Sorvoliamo, dunque, sull’incredibile intreccio orgiastico tra potere e informazione per cui accade che il direttore di un giornale posseduto dalla (ex)moglie dell’attuale Presidente del Consiglio (Giuliano Ferrara. Il direttore, non la moglie eh…) scriva un editoriale sul giornale (il Giornale) del fratello del Presidente del Consiglio (Paolo Berlusconi) per difendere il Presidente del Consiglio, del quale governo, peraltro, lui (Giuliano Ferrara) è stato Ministro dal 1994 al 1995. Dimentichiamo che fra poche settimane Ferrara potrà di quello spazio di approfondimento politico che fu di Enzo Biagi.
Arrendiamoci di buon grado persino all’idea che il semplice fatto di rappresentare un’istituzione religiosa porti in dote a chi la rappresenta – in questo caso il Cardinale Bagnasco – competenze pressoché illimitate in qualsiasi ambito, tali da garantire all’eminenza di turno spazi pressochè illimitati sui media nazionali e da consentirgli di esprimersi a ruota libera, un giorno si e l’altro pure, su tutto lo scibile umano (dal federalismo alle rivoluzioni in nordafrica).

Tutto, pur di risparmiarsi l’ennesima manifestazione di quel voyeurismo morboso del delitto che è ormai diventato un genere informativo di successo in un’Italia in cui ci sarebbe ben altro di cui occuparsi. Colpa dei media? Anche. Dei cittadini? Soprattutto.

Se è infatti vero che giornali e televisioni (anche il tg la7, ahimè) dimostrano di anteporre esigenze puramente commerciali ai propri dettami deontologici, che la delicatezza della professione giornalistica imporrebbe di rispettare in modo molto più rigoroso, è anche vero che il pubblico dimostra di appassionarsi oltremodo a queste vicende di cronaca nera, che nulla hanno a che fare con l’interesse pubblico. Cosa ancor più grave, questa passione deriva più dalla necessità – tipica dell’italiano medio – di assecondare la propria indole da telespettatore “divano, birra e telecomando” che non dal desiderio di provare, una volta ogni tanto, quel sano sentimento di solidarietà umana, ormai così anacronistico.

E la tragedia dai risvolti macabri e oscuri – diluita, come nella più squallida delle sit-com, in comode e avvincenti puntate – si presta perfettamente a questo tipo di rappresentazione spettacolarizzata: unisce il pathos dell’attesa di nuove rivelazioni (sul ritrovamento del cadavere, sull’arma del delitto, sul movente, sull’assassino) alla pornografia del dolore. Quella che si nutre delle lacrime che bagnano i volti dilaniati dal dolore dei familiari e degli amici della vittima. Quella che si alimenta dei dettagli più scabrosi sulle modalità utilizzate dal carnefice. Quella che ingurgita ossessivamente tutti i particolari sulle condizioni del corpo martoriato dalla follia omicida.

E così, tra gli immancabili pellegrinaggi sul luogo del delitto – ormai eretto a luogo di culto in cui gli adepti del dio-tv possono ritagliarsi il proprio minuto di celebrità –, le testimonianze di amici e parenti che assicurano che la vittima “era una brava persona” – quasi a dire: “altrimenti l’assassino non avrebbe avuto tutti i torti” – ed il ricordo commosso del parroco di turno, cala il sipario, pronto a riaprirsi non appena le indagini o l’autopsia forniranno nuovo materiale con cui saziare la fame dei bulimici della tragedia.

Sullo sfondo tante storie drammatiche che rimangono nel silenzio.
Sono quelle che avvengono lontane dai riflettori dei media: nelle carceri, nei corridoi delle questure, sulle gelide panchine di parchi e stazioni, nelle baracche di periferia, nei cantieri, nelle acque agitate che separano l’Africa dalla Sicilia.
Storie di morti che diventano numeri. Storie che andrebbero raccontate e denunciate per impedire che si ripetano. Storie che, probabilmente, in pochi ascolterebbero con la stessa attenzione.
Storie che, per questo, vengono ignorate.


It’s the market, baby.

martedì 22 febbraio 2011

In mutande, ma liberi?


Articolo scritto per gli amici di Pane&Politica (http://www.panepolitica.itwww.panepolitica.it/), portale dedicato alla comunicazione ed al marketing politico. Fateci un salto, merita davvero!


La carne è debole, l’uomo pure: fra tradimenti, relazioni clandestine e scappatelle più o meno abituali, la storia politica occidentale ha visto il filo pubblico della vita degli stati intrecciarsi di frequente con quello privato delle vicende sessuali e amorose dei rispettivi leaders, dando vita ad un groviglio che ha rischiato di segnare – e che, a volte, ha segnato – il destino politico dei protagonisti e dei rispettivi paesi di appartenenza.

Dall’amore extraconiugale tra Cleopatra e Antonio – la cui infedeltà ai danni della sorella di Ottaviano provocò la reazione militare del triumviro romano e dell’Impero – al mancato riconoscimento da parte della Chiesa Cattolica del matrimonio tra Enrico VIII e Anna Bolena – vero e proprio casus belli dello scisma anglicano -, sono molti gli esempi storici di questa pericolosa sovrapposizione tra pubblico e privato.
Per quale motivo, allora, amori inconfessabili, tradimenti e scandali sessuali destano nell’opinione pubblica uno scalpore tale da minacciare la sopravvivenza politica dei personaggi coinvolti? Quali sono le zolle da non calpestare nel campo minato della politica?
Per capirlo dobbiamo distinguere tra le varie possibili manifestazioni dello scandalo sessuale e analizzarne, di volta in volta, le principali ripercussioni politiche, operando una sorta di fenomenologia del sexy-gate.

Una prima manifestazione del fenomeno è la relazione extraconiugale, evocatrice della dimensione nobile e romantica del sentimento, della passione e, talvolta, dell’amore. Dall’appassionata e tragica relazione tra Claretta Petacci e Mussolini, alla love story tra Marilyn e i Kennedy (JFK prima e Robert poi), fino alla segretissima relazione di Mitterand con Anne Pingeot, da cui nacque la piccola Mazarine, la relazione extraconiugale risulta il genere di sexy-gate più “frequentato” dai politici del ‘900. Addirittura, si dice che Mitterand, nel tentativo di nascondere l’identità della figlia illegittima, fece recapitare una piccola bara bianca davanti alla casa di Jean Hallier, lo scrittore neo-papà che minacciava di svelare l’inconfessabile segreto presidenziale.
Perché tanta paura? Perché l’infedeltà coniugale, oltre ad essere una possibile fonte di instabilità nella vita privata di un leader che minaccia di ripercuotersi negativamente sulla rispettiva azione politica, rappresenta la violazione ed il tradimento di quel vincolo di fiducia – in questo caso tra l’interessato e la consorte – che, da un momento all’altro, può riflettersi negativamente sul rapporto fiduciario tra politico ed elettore, minandone le fondamenta.

Una seconda manifestazione del sexy-gate riguarda lo scandalo sessuale in senso stretto. In questo caso è la dimensione peccaminosa e boccaccesca del “sotto le lenzuola” a conquistare il centro della scena, rivelando le debolezze e le (inaspettate) abitudini sessuali del potente e macchiandone per sempre, più di quanto non possano fare decine di campagne ad hoc, l’immagine pubblico-politica.
Anche se il “vizietto” accomuna i politici di svariate generazioni (indimenticabile, ad esempio, l’ira della moglie di Crispi che, in una furiosa lettera al segretario particolare del marito, lo invitava a “smettere di portare puttanelle al Presidente”), negli ultimi anni, complice anche il crescente interesse dei media per le vicende private dei politici, gli scandali sessuali divenuti di pubblico dominio si sono moltiplicati.
Essi aggiungono al pericolo di una possibile rottura del legame fiduciario con l’elettorato – lo stesso Clinton si salvò solo perché, tecnicamente, non mentì alla nazione – la minaccia di rendere il politico incompatibile con le posizioni precedentemente sostenute.
Il senatore Repubblicano dell’Idaho Larry Craig, ad esempio, fu costretto a dimettersi dopo aver cercato di fare sesso con un poliziotto in borghese in un bagno pubblico. Era un feroce oppositore dei matrimoni gay.
Questi scandali, inoltre, risvegliano le coscienze “puritane”, che in tema di peccati carnali sono in grado di ridestarsi dallo stato di assopimento che generalmente le attanaglia in un attimo, dimostrandosi tutt’a un tratto pugnaci e battagliere. Tanto da costringere alle dimissioni il politico coinvolto nel sexy scandalo, come accadde al ministro degli esteri finlandese Ilkka Kanerva nel marzo del 2008, quando i contenuti “piccanti” dei circa 200 sms inviati ad una spogliarellista vennero a galla.

C’è infine lo scandalo sessuale che, assumendo rilevanza penale, rappresenta una minaccia personale – è infatti a rischio la libertà fisica dell’individuo – per il politico coinvolto.
Un esempio recente riguarda il presidente israeliano Moshe Katsav, autosospesosi dopo essere stato accusato, tra le altre cose, di violenze sessuali.

Bacchettoni, moralisti, o più semplicemente desiderosi di una maggiore coerenza e correttezza da parte dei politici, gli elettori dimostrano dunque una certa sensibilità allo scandalo politico-sessuale, rendendolo una vera e propria minaccia per i rappresentanti delle istituzioni. I quali, in virtù della conseguente necessità di nascondere l’inconfessabile, si pongono in quella condizione di ricattabilità che rappresenta il denominatore comune tre le diverse manifestazioni del sexy-gate.

Il caso Ruby porta in dote a Berlusconi tutte le possibili minacce appena viste: compromissione del legame di fiducia con gli elettori, incoerenza rispetto alle proprie posizioni politiche, immoralità, ricattabilità e risvolti penali.
Il fatto che il Premier, stando ai sondaggi, non ne abbia risentito dal punto di vista del consenso elettorale, rappresenta già una grande vittoria.

Per lui.

mercoledì 16 febbraio 2011

Eppur (qualcosa) si muove

"Poi vennero per me, e non era rimasto più nessuno ad alzare la voce..."
(Martin Niemhöller)


“Perché la donna non è cielo, è terra”. E’ quasi buio quando, sui versi della “Ballata delle donne”, una piazza castello ancora piuttosto gremita si scioglie in un lungo ed emozionante applauso carico di dignità. Quella di migliaia di donne, giovani e meno giovani, che dal primo pomeriggio, sciarpa bianca al collo, hanno invaso il centro di Milano da via Dante a Largo Cairoli, fino ai piedi del Castello Sforzesco. Ma anche quella di molti uomini, convinti che la battaglia per il rispetto del corpo e della figura della donna vada combattuta sul terreno culturale più che su quello della questione di genere.

E così, nella Milano dell’industria immateriale, a due passi dal triangolo della moda, i versi del compianto Edoardo Sanguinetti si caricano di ulteriori significati nella voce rotta dalla commozione di Ottavia Piccolo, accompagnata dal rispettoso silenzio della piazza.
Una piazza che nel corso delle oltre tre ore di manifestazione sa emozionarsi, ascoltare, farsi sentire – al grido di “vergogna” e “dimissioni” – e farsi notare, come quando lo sventolio delle migliaia di sciarpe bianche colorano l’uggiosa domenica milanese, regalando un colpo d’occhio da brividi.

Altre scosse arrivano dal palco, dove una brillante Teresa Mannino accompagna gli interventi dei vari ospiti, espressioni di quella società civile che oggi – salvo rarissime eccezioni – è scesa in piazza sfoltita dalle bandiere di partito e avvolta nel tricolore. Tra gli altri Franca Rame, Gad Lerner, Massimo Cirri, Dario Fo e una rappresentante del carcere di Bollate, che, in una lettera, dimostra come suonino beffarde, alle orecchie delle detenute, le elargizioni in denaro del Premier alle non meglio precisate “persone in difficoltà”.

Beffardi sono anche i numerosi cartelloni, stendardi e striscioni che emergono a fatica tra la fiumana di gente – c’è chi dice sessantamila, chi addirittura centomila persone – che ha riempito pacificamente e in modo straordinariamente composto la piazza.
Ci sono quelli (auto)ironici – fenomenale quello che recitava “Silvio, sono incinta!” –, quelli più esplicitamente femministi – “Libere di agire, capaci di reagire” – e quelli più forcaioli, rivolti al Presidente del Consiglio – “in galera!” -, a conferma della pluralità e diversità delle voci presenti in piazza. Una diversità sociale, politica e generazionale che noti dalle piccole cose: una kefiah sgualcita di fianco ad una morbida sciarpa di seta, un’elegante scarpa col tacco di fianco a una più trendy “ballerina”, un “chiodo” ribelle di fianco a un caldo doppiopetto. Ma che vedi scomparire nel bacio sulla fronte con cui un’elegante ed anziana insegnante milanese saluta un suo vecchio alunno, oggi padre, invitandolo a darle de tu. O quando un’unica, grande voce si leva dalla piazza sulle note di “Scandalo” di Gianna Nannini e nel botta e risposta tra il palco e la platea «Se non ora, quando? – Adesso!». Una voce che arriva fino in Largo Cairoli, dove l’entusiasmo della folla è arrivato a lambite la statua di Garibaldi, simbolo di quell’Unità che l’Italia, almeno oggi, sembra aver ritrovato.
I dati sull’affluenza nelle piazze, che arrivano da tutt’Italia, sono infatti impressionanti. Gli organizzatori, dal palco, li leggono nell’euforia generale: centomila a Roma e Napoli, cinquantamila a Torino, ventimila a Bologna, diecimila a Palermo e migliaia in molta altra città italiane e straniere, da Londra alle Hawaii. Alla fine della giornata saranno addirittura un milione in tutto il mondo.

E così, sulle note di una “Bella Ciao” riadattata dai Modena City Ramblers, Milano si scioglie in un ballo liberatorio, ritrovando quell’anima resistenziale che la piazza, con le sue mille voci, ha oggi voluto arricchire di nuovi significati: resistenza al degrado culturale, resistenza alla deriva di un sistema di potere spesso misogino e tentacolare.
Soprattutto, resistenza all’idea che il senso e la portata di questa grande manifestazione possano essere impoveriti da una loro interpretazione in chiave moralistica, che ne deformi la reale natura:

quella di un moto genuino e spontaneo di riscossa culturale.


sabato 12 febbraio 2011

Il Cairo, 11 febbraio 2011

"La libertà non è un mezzo per un fine politico più alto. E' essa stessa
il fine politico più alto"
(J. Acton)

martedì 8 febbraio 2011

Arcore, 6 febbraio 2011

Ecco le immagini, le voci, i suoni e i colori della manifestazione di domenica 6 febbraio in largo Vela, ad Arcore, di fronte alla villa di Berlusconi.
Grazie a Sonia per le foto e alla mitica "Sony DSC" di Diego per i video!!

P.S. I due ragazzi arrestati dopo gli scontri di domenica sera - Giacomo Sicurello e Simone Cavalcanti - sono stati rilasciati il giorno seguente. Il processo si terrà il 7 marzo.
Non hanno morsicato il polpaccio a nessun carabiniere.

Non diventeranno ministri dell'interno.


domenica 30 gennaio 2011

(Pe)Stato di diritto

Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni
(F.M. Dostoevskij)

*Il pezzo lo trovate anche su www.virgolenellevirgole.it, portale sulla libera (e giovane!) informazione. Visitatelo, merita!!

Quattro storie. Diverse per circostanze e protagonisti, ma drammaticamente simili per i loro tragici epiloghi.
Quattro storie in cui il dramma umano degli involontari protagonisti, le violenze e gli abusi delle forze dell’ordine, le speculazioni delle forze politiche ed il troppo frequente silenzio dei mezzi di informazioni si mischiano in un groviglio inestricabile, che rende spesso impossibile l’accertamento della verità. Quattro storie che, comunque la si pensi, vanno ricordate e approfondite, insieme alle altre decine di storie che, ogni anno, si ripetono tristemente nelle carceri e nelle Caserme di tutta Italia.
Per non dimenticarli, per non dimenticare.


La storia di Giuseppe
Giuseppe, quella sera, non sapeva di andare a morire. Era stata una bella giornata. La partita dell’Italia, una serata in compagnia, le risate. Qualche bicchiere di troppo. E poi quella frase, nel cuore della notte: “Uva, è proprio te che cercavo”.
L’incubo di Giuseppe Uva, 43enne artigiano varesino, inizia così.
Sono le 3 di notte del 14 giugno 2008 quando, insieme all’amico Alberto, una pattuglia di Carabinieri lo ferma nel centro di Varese. Euforico, stava transennando una via, nel bizzarro tentativo di deviarne il traffico. Portato in caserma, rimane per ore in balia di una decina di uomini tra poliziotti e Carabinieri.
Le urla strazianti, le grida di dolore. Poi, il silenzio.
L’amico Alberto, rimasto nella sala d’attesa della caserma, chiama un’ambulanza per chiedere aiuto. Al telefono con la centralinista, i Carabinieri minimizzano: “Sono solo due ubriachi, adesso gli togliamo i cellulari”. Alle 5 del mattino, però, l’ambulanza arriva, chiamata dalle stesse forze dell’ordine.
Giuseppe muore alle 10.30 di quella mattina nell’ospedale “Di Circolo” di Varese. La versione ufficiale parla di una combinazione tra farmaci e alcool letale per il corpo di Giuseppe.
Corpo che la sorella Lucia, quella mattina, stenta però a riconoscere: le costole che sporgono in modo innaturale, la pelle livida di botte, le gambe sfregiate da numerose escoriazioni, la mano destra rigonfia, la frattura alla colonna vertebrale, le parti intime insanguinate.
Corpo di un uomo che, due anni e mezzo dopo, non ha ancora avuto giustizia.

La storia di Stefano
Chissà cosa pensava Stefano, quando i Carabinieri lo fermarono nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009. Addosso aveva 20 grammi di hashish, una piccola quantità di cocaina e una pasticca di Rivotril, che utilizzava per combattere la sua battaglia quotidiana contro l’epilessia. Stefano era tranquillo: sapeva di non essere un narcotrafficante e sapeva che, a casa sua, i Carabinieri non avrebbero trovato nulla.
Eppure, alle 3 di notte, dichiara di sentirsi male. Quando, alle 5 di mattina, arriva in ospedale, ha gli occhi tumefatti. Che volete, “aveva dormito poco e le camere di sicurezza non sono certo alberghi a 5 stelle”, dichiara il maggiore dei Carabinieri Paolo Unali. Ma il referto dei medici dell’ospedale Fatebenefratelli non parla di occhiaie: Stefano presenta ecchimosi su tutto il corpo, lesioni oculari e lesioni alla schiena, due vertebre spezzate.
Quando il padre di Stefano, la mattina stessa, lo incrocia in Tribunale durante il processo per direttissima, legge in quegli occhi lividi di dolore un disperato grido d’aiuto. Sarà l’ultima volta che vedrà suo figlio.
Tradotto nel carcere di Regina Coeli, Stefano Cucchi muore in solitudine all’alba del 22 ottobre 2009 nel reparto detentivo dell’Ospedale Pertini di Roma.
Pesava 37 chili.

In barba al ministro della Giustizia (della Giustizia) Angelino Alfano, che ha riportato in Parlamento (in Parlamento) la versione della tragica “caduta dalle scale”, il Giudice per l’udienza preliminare di Roma ha rinviato a giudizio 12 persone tra guardie carcerarie, medici e infermieri, condannando in primo grado a 2 anni Claudio Marchiando, direttore dell’ufficio detenuti del carcere di Regina Coeli.


La storia di Federico
Per Federico, quella era la sera del concerto reggae al “Link” di Bologna. Una serata cominciata bene – gli amici e l’emozione per il concerto -, degenerata in qualche eccesso – la delusione per l’annullamento del concerto sfogata nell’alcool e nell’ecstasy– e finita in tragedia.
Sono le 5.47 del 25 settembre 2005 quando una pattuglia della Polizia di Stato incrocia il 18enne Federico Aldrovandi per le vie di Ferrara. C’è una colluttazione. Pochi minuti dopo arriva un’ambulanza: il corpo del giovane è riverso a terra in una pozza di sangue. Testicoli schiacciati, ecchimosi ed ematomi diffusi, una lesione alla testa in sede occipitale, una profonda ferita su una natica e graffi sul viso. Due manganelli sfondati.
L’abbiamo bastonato di brutto…è mezzo morto", si fa scappare il capopattuglia Enzo Pontani in un dialogo con la centrale.
Alle 6.18 Federico muore.
Pochi minuti dopo, come testimonia questo video (minuto 2.33), gli agenti ridacchiano a pochi passi dal suo corpo esanime.

La notizia passa sotto silenzio: qualche trafiletto sui giornali locali e poco più. Nel gennaio 2006 la madre di Federico apre un Blog, attraverso il quale intraprende la sua personale battaglia di giustizia e verità nel nome del figlio. Un figlio prima barbaramente ucciso, poi marchiato con l’etichetta di “drogato”.
Nel luglio 2009 i quattro agenti di polizia vengono condannati in primo grado a 3 anni e sei mesi di reclusione per eccesso colposo in omicidio colposo.
Sono ancora tutti in servizio.


La storia di Aldo (e il futuro di Rudra)
Rudra si alza presto al mattino. Deve andare a scuola, studiare e costruirsi un futuro.
Rudra è rimasto solo in un casolare sulle colline dell’Appennino umbro-marchigiano. Cerca di aiutarlo, tra mille difficoltà, uno zio giunto un anno e mezzo fa dalla Germani. Eh già, perché Rudra non ha più i genitori.
Inizia tutto una mattina d’ottobre, quando gli agenti di Polizia arrestano il padre Aldo e la madre Roberta. Nel campo antistante al casolare i poliziotti avevano trovato delle piantine di canapa indiana. Aldo e Roberta non erano narcotrafficanti; semplicemente, non si arrendevano all’idea di doversi piegare alle prescrizioni di leggi che ritenevano ipocrite ed agli interessi di organizzazioni criminali che non volevano in alcun modo foraggiare.
Dopo una notte trascorsa in carcere, Roberta rivede il marito. Per l’ultima volta.
La mattina dopo – è il 14 ottobre del 2007 – Aldo Bianzino viene trovato morto nella sua cella d’isolamento. Quattro ematomi celebrali, milza e fegato spappolati, due costole fratturate: secondo il referto medico del personale del carcere Aldo sarebbe morto a causa di un infarto.
Prima di morire – nel giugno 2009, uccisa da un tumore e dilaniata da un dolore insopportabile –Roberta lancia una sottoscrizione per il figlio. E’ solo grazie a quest’ultimo, disperato gesto e alla generosa mobilitazione della rete e dei Radicali che Rudra – quando, tra pochi mesi, compirà 18 anni – potrà disporre di una cifra di circa 70mila euro.


Quant’è lontana, Arcore.