martedì 27 aprile 2010

L'inizio della...Fini?

“La gente ti chiede una critica, ma in realtà vuole solo una lode”
(W. S. Maugham)




Il re è nudo. In casa sua. Fortunatamente, dato il soggetto in questione, solo in termini figurati.

Lo scontro Fini-Berlusconi ha scoperchiato, tutt'a un tratto e come nel più squallido dei varietà pomeridiani, ciò che si celava dietro alla favola “del partito del fare”, “del 60%”, “dell'amore che vince sempre sull'invidia e sull'odio”. E cioè la meno incantevole ma più realistica immagine di un partito di carta, fondato sulla devozione (per alcuni, ma soprattutto per alcune, pronazione) al capo, su di un culto del leader che sempre più spesso degenera in vera e propria idolatria verso un dio in carne (o meglio plastica) ed ossa, invece che su idee, valori e proposte politiche. Un partito privo dei più elementari meccanismi di democrazia interna, in cui il pluralismo viene quotidianamente annullato, le (poche) voci fuori dal coro riportate nei ranghi o cacciate, la meritocrazia vista con sospetto ed il clientelismo coltivato a piene mani.
Insomma, un non-partito (o un partito in piena regola, visti i tempi che corrono).

Questa premessa è fondamentale per capire le ragioni dell'asprezza dello scontro e delle ire di Berlusconi.
Per la prima volta in 15 anni il Re si è accorto di dover rendere conto a qualcuno in casa propria.
Non sono tanto i contenuti delle critiche mosse da Fini, dunque, ad irritare Berlusconi. Certo, il fatto che una personaggio tutt'altro che immacolato come l'attuale presidente della Camera debba ricordare al Presidente del Consiglio di combattere le organizzazioni mafiose invece di attaccare chi, come Saviano, le denuncia, di evitare di oltraggiare quotidianamente le istituzioni di garanzia della Repubblica, di smetterla di usare giornali e tv di famiglia per combattere i nemici e reprimere il dissenso e magari (addirittura) di smetterla di possederne, la dice lunga sullo stato di salute della democrazia in Italia. Il vero problema però, trattandosi del leader di uno stato che, formalmente, si dice ancora democratico, è il fatto stesso che questi dimostri, una volta per tutte, la sua quasi antropologica insofferenza alla critica ed al dissenso.

E si che il monarca di Arcore aveva pensato a tutto per evitare che la sua reggia venisse oltraggiata. Telecamere ovunque, il logo con il suo nome a caratteri cubitali in bella mostra, gli interventi dei suoi cortigiani ad anticipare il suo comizio ed il discorso di Fini, lo scudiero ribelle, relegato al tardo pomeriggio, quando i giornalisti stanno già pensando a come trascorrere la serata.
Poi, tutt'a un tratto, il fuori programma: una frase di troppo, Fini che fa per andarsene e la mossa che si rivelerà un boomerang: l'invito sul palco. E qui avviene l'irreparabile, proprio su quel terreno mediatico e d'immagine che Berlusconi aveva da sempre monopolizzato. Il ribaltamento dei ruoli è totale: il leader relegato ai margini del palco che sbraita a microfono spento mentre il rivale, al centro della scena, denuncia, critica, attacca. Lesa maestà!
La replica di Berlusconi, ormai alle corde, è il solito e confuso refrain del complotto e delle menzogne contro di lui. Fini reagisce di nuovo: si alza, punta il dito, quasi lo schernisce. Cala il sipario.
Per l'ex leader di An una vittoria in trasferta.
Per colui che ha trasportato i linguaggi della pubblicità in politica una clamorosa sconfitta in casa, senza i tifosi ospiti.

E con l'arbitro a favore.


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